26 Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirène che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù.
Negli stati cosiddetti “cristiani”, quelli cioè in cui una parte significativa della popolazione si dice appartenente ad una qualche confessione cristiane, si vedono molte persone portare come simbolo una croce: appesa ad una catenina al collo, negli orecchini, in un braccialetto; le croci invadono lo spazio pubblico anche in modo indebito, venendosi a trovare nei luoghi pubblici, nelle case, nei monumenti, in cima i monti o disegnate sui muri. Questo pullulare di croci è piuttosto curioso, ed è curioso il fatto che siano spesso diventati dei semplici motivi ornamentali, o delle opere d’arte che attraggono folle di turisti che del significato di quelle croci non sanno niente, oppure, pur sapendolo, non sono interessate. La croce è insomma ovunque e questa sua grande diffusione non ci aiuta a capire il passo del vangelo di Luca che abbiamo letto oggi.
- Perché chiedono ad un estraneo di portare la croce?
Da quando Gesù è stato arrestato dai capi dei sacerdoti, dai romani e da una parte del popolo è stato a contatto con i suoi carnefici che lo hanno ridotto ad un quasi-cadavere. Le forze fisiche di Gesù sono probabilmente arrivate allo stremo e quindi non riesce più a trasportare quel legno pesante a cui verrà appeso per essere messo a morte. Molto probabilmente, nonostante i film e i quadri della crocifissione, Gesù non porta tutta la croce, ma solo il palo orizzontale per poi essere appeso al palo verticale già predisposto in cima al Golgota. Per quale motivo non si chiede ad uno di quelli che lo hanno arrestato, picchiato, schernito di portare la croce? Perché in quella società la croce era ben lontana dall’essere un motivo ornamentale o un simbolo di pace. Era un simbolo di vergogna, di tortura e morte riservato ai peggiori criminali. Era uno strumento di tortura. Che effetto ci farebbe oggi vedere delle sedie elettriche o dei capestri appesi al collo delle persone? Ciò che le persone provavano a quel tempo pensando alla croce era probabilmente simile a quello che pensiamo noi vedendo delle sedie elettriche, o delle iniezioni letali. Nessuno di quelli che hanno partecipato alla condanna e all’arresto di Gesù vuole prendersi la responsabilità di portare un fardello scomodo e vergognoso. Che soluzione trovano? La fanno portare ad uno che non c’entra niente. Uno che veniva da fuori, da una città straniera, dalla campagna, e che non aveva avuto parte nella condanna. In altri termini un capro espiatorio che facesse il lavoro sporco provocato dalla loro cattiveria.
Non sembra per altro di vedere il gruppo dei discepoli, che pure saranno ai piedi della croce, intervenire per portarla. Passivi, accettano che sia un esterno a portare la croce. Chissà chi dei presenti avrà ricordato le parole di Gesù quando diceva: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Luca 9, 23). È pur vero che Gesù non dice la “mia”, ma la “sua” croce, ma a croce di ognuno di noi, non è sempre e comunque anche quella degli altri?
Una tentazione perenne per il popolo di Dio, come per il popolo a cui di Dio non interessa è proprio quella di sfuggire alla croce. I carnefici di Gesù lo mettono a morte, ma di quella croce non ne vogliono sapere. I discepoli che sono lì non intervengono.
Questa situazione si ripresenta oggi tutte le volte che:
- davanti alla sofferenza, davanti al male che avanza, davanti a malati, carcerati, profughi, prostitute, drogati, ci tiriamo indietro;
- davanti agli atti scellerati di una dittatura, o alle ingiustizie commesse in un luogo di lavoro, o in mezzo alla strada, scegliamo di lasciar fare, di aspettare che arrivi qualcuno da fuori che faccia il lavoro faticoso e sporco di alleviare la sofferenza e ristabilire la giustizia.
- Capita tutte le volte che dovendo affermare chiaramente la nostra identità cristiana, dicendo che Cristo è risuscitato e vive (!) ci tiriamo indietro per vergogna, perché il messaggio è imbarazzante o malvisto nella società di oggi.
Non aspettiamo che debba arrivare uno qualunque per fare ciò di cui noi siamo responsabili, o ciò rispetto a cui possiamo intervenire! Non aspettiamo gli specialisti, gli evangelisti, i superspecializzati per fare cose che con l’aiuto dello Spirito possiamo ampiamente fare, prendendo la nostra croce! Che il Signore ci aiuti a non imitare né i carnefici né il silenzio dei discepoli di questo momento.
- Chi è Simone di Cirene?
La persona di Simone di Cirene occupa un grande spazio nella cultura popolare. Lo si ritrova in molti quadri, fa parte della quinta tappa del cammino della via crucis, è stato considerato discepolo, per alcuni è il modello dell’aiuto nella sofferenza. Tutto ciò è strano perché nei vangeli di lui si dice pochissimo: tutto quello che sappiamo è che si chiama Simone, che viene da Cirene, che veniva dalla campagna, e dal vangelo di Marco si sa anche aveva due figli. Basta. Non sappiamo se si sia mai convertito, se abbia accettato di buon animo l’ordine datogli, se abbia compatito il Cristo o se lo abbia maledetto…
Da quello che leggiamo i soldati romani gli hanno imposto di aiutare. Non è affatto un discepolo che per sua scelta responsabile decide di portare la croce, la porta in silenzio perché non può fare altrimenti. Evitiamo quindi di idealizzarlo.
Tuttavia è possibile vedere in lui un modello di ciò che succede ad ognuno di noi quando si trova davanti ad un male con cui non ha niente a che vedere. Simone è lontano da quel male nello spazio, era in campagna a lavorare. Noi nel tempo. In questa estraneità Simone incontra Gesù. Può liberamente maledirlo, visto che per colpa sua deve portare una colpa non sua. Può invece riflettere e chiedersi chi sia quell’uomo sfigurato che trascina un legno pesante e che tutti ingiuriano. Il male spesso ci piomba addosso quando eravamo da lui lontani. Una malattia non siamo noi a sceglierla, un incidente può essere provocato da altri, una persona che soffre ci può sbarrare il cammino verso il divertimento, l’autosoddisfazione… Sta a noi scegliere se prendere quella croce, se unirci a Cristo nelle sue sofferenze oppure ignorarlo. Se seguire il messaggio di Cristo di soffrire assieme agli altri, oppure coltivare noi stessi e cercare di soffrire il meno possibile. Tutte le croci che invadono le nostre società dovrebbero ricordarci continuamente che c’è sempre qualcuno che soffre, e sopra ad ogni altra cosa, che Gesù ha sofferto. Che posizione prendiamo rispetto a questa sofferenza?
- Che Significato ha l’atto di Simone?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo capire bene il significato della croce di Cristo. Non è facile esaurire in poche righe uno di quei momenti fondamentali della fede cristiana. Possiamo solo dire che il peso della croce che Gesù porta non è solo fisico. L’uccisione di una vittima innocente, la crocifissione di un giusto, la scelta di mettere a morte il messia, il figlio di Dio, racchiude il concentrato di tutti i peccati commessi dagli uomini, passati, presenti e futuri. Colpevole è l’arresto, la violenza, la presa in giro; ma è colpevole anche l’indifferenza, il tirarsi indietro, il non prendere posizione. C’è un peso mondiale sulle spalle del Cristo che sorpassa infinitamente la sofferenza fisica, consistente nella scelta deliberata di pagare sulla croce il prezzo delle colpe di tutta l’umanità. In una parola il messaggio cristiano è questo: Gesù ha portato una croce per noi, quindi noi possiamo portare la nostra, altrimenti non potremmo.
Che significato ha allora l’atto di Simone? Come già detto potrebbe non averne alcuno, ed essere la sopportazione fastidiosa di un peso che gli viene imposto da autorità maggiori, per cui porta e tace, ma senza per questo capire cosa stia succedendo a Gesù.
Potrebbe invece darsi che Simone decida di portare realmente insieme a Gesù la croce, decida di aiutarlo a sostenere quel peso, alleviandogli un po’ di sofferenza fisica. Ma dico fisica, perché Simone può al massimo aiutare Gesù in questo senso. Non può certo aiutarlo ad alleviare la sofferenza morale dovuta al peso dei peccati. Può però capire che quel Gesù estraneo sta portando il peso anche delle sue colpe, lui apparentemente innocente ed estraneo, e allora può aiutare a portare la croce per dare un senso alla sua sofferenza: posso portare perché prendo parte all’atto più importante successo nella storia.
Pietro nella sua epistola evoca l’idea di prendere parte alle sofferenze:
- I Pietro 4, 13Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare.
Quando si soffre portando la croce non si aggiunge niente a quanto Cristo ha già fatto per noi e al valore della sua sofferenza. Ma si soffre potendo dare un senso alla sofferenza. Chi soffre per il Regno di Dio sta portando la croce insieme a Simone di Cirene; e sebbene il male sia imposto, viene accettato volentieri, perché si sa che proprio sulla croce Gesù vince il male, la morte e la sofferenza stessa provocata dal trasporto della croce. Non c’è valore espiatorio nelle nostre sofferenze, ma solo il prendere parte a qualcosa che Gesù ha già vissuto.
Se abbiamo scelto di portare la croce, non fermiamoci a guardare alla morte, ma guardiamo alla vittoria.