Neemia 5: il nemico interno

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Introduzione: il popolo e i giudei

Per quanto molti popoli riescano ad unirsi intorno ad un sentimento nazionale, ad un’identità capace di rendere uno un popolo o paese, spesso le stesse persone che si sentono unite da qualcosa trovano facilmente modo di dividersi su molte altre cose. Gli italiani ad esempio si sentono tutti uniti quando gioca la nazionale dell’Italia o il primato della pizza, ma gli stessi che tifano per l’Italia una settimana prima odiavano gli stessi giocatori che invece che nella nazionali giocavano in una quadra a loro avversa, ed i mangiatori di pizza sono pronti a farsi la guerra se si tratta di stabilire se la pizzeria X faccia la pizza meglio della pizzeria Y… Passando su un terreno più serio, ci sono paesi africani come la Liberia, in cui gli «ex schiavi» deportati in America con la tratta dei neri, una volta rientrati in Africa grazie a movimenti anti-schiavisti di liberazione (da cui il nome Liberia) dopo tre secoli, hanno messo in piedi un sistema segregante e discriminatorio nei confronti degli stessi neri che dalla Liberia non si erano mai mossi… Apartheid tra neri in uno stato che porta il nome libertario di «Liberia»!

Una situazione simile si verifica nel libro di Neemia al capitolo 5. Nei primi quattro capitoli abbiamo avuto l’impressione di un popolo coeso ed unito che conosce come unico elemento di disunità la minaccia esterna dei nemici stranieri. Ora vediamo per la prima volta, già dal primo versetto, che il popolo interessato alla ricostruzione delle mura di Gerusalemme non si presenta così unito come sembrava: da un lato abbiamo «il popolo», dall’altro i «giudei». Che differenza c’è tra questi due gruppi? I giudei sono quelli che sono sempre rimasti nella terra di Israele: quando nel 722 a.C. molti ebrei del regno dei Nord furono deportati in Assiria dal re Sennacherib II, rimasero diversi Giudei in Israele. Anche nelle successive deportazioni a Babilonia, come prigionieri esiliati dal re Nebucadnetsar, alcuni rimasero. In seguito tuttavia cominciarono a tornare. Con il «popolo», dunque, Neemia intende coloro che a più riprese sono tornati in patria: prima con Zorobabel, poi con Ezdra e adesso con Neemia. Dai primi due versetti vediamo che c’è una separazione tra questi due gruppi – un po’ come nel libro degli Atti (At 6) leggiamo di una separazione tra cristiani provenienti dall’ebraismo ed altri provenienti dal ellenismo – e che un gruppo si sente maltrattato dall’altro. Il problema di fondo è che chi torna in patria versa in situazioni economiche instabili e è nel bisogno e non trova l’aiuto dei «giudei» di quelli che sono sempre stati lì.

Questo problema si impone al leader Neemia, che occupa una posizione mediana: è anch’egli un rimpatriato, uno che viene da fuori e che ha a cuore la sorte di Gerusalemme, proprio come gli esponenti del «popolo»; al contempo è sostenuto finanziariamente dal re Artaserse ed è un benestante quindi non ha problemi, come non ne hanno «I giudei». Per un leader che vuole rilanciare un popolo la sfida è difficile: è riuscito a convincere tutti dell’importanza di un progetto straordinario, quello della ricostruzione delle mura; è riuscito ad ottenere coraggio ed unità nella sconfitta dei nemici esterni; ora si trova davanti ad un nemico interno, quello della divisione… Per vedere come il Signore lo guida per tenere unito il popolo, vediamo su quali fattori insiste.

1. Un uso saggio (riflettuto) del riferimento comune: la legge.

Il problema che si trova ad affrontare Neemia è complicato. Ci sono tre gruppi di persone, uno che chiede da mangiare, l’altro che è pronto ad impegnare i propri beni, e l’altro ancora che ha già impegnato i propri beni e persino venduto i propri figli come schiavi. Alcuni si sono venduti ai pagani, altri tra ebrei. Questi gruppi constatano l’ingiustizia e ne sono rattristati: è una stessa «carne» una stessa stirpe, uno stesso sangue, che non si aiuta, ma si sfrutta. C’è qualcosa che mi sorprende nella reazione di Neemia: prima si indigna, e potremmo aspettarci scatti di collera contro gli ingiusti; poi però comincia a riflettere. Invece dopo l’indignazione Neemia non procede immediatamente all’azione, ma va alla riflessione.

Il problema non è banale perché ciò che i giudei hanno fatto nei confronti del popolo non è completamente proibito e risolvibile sul piano giuridico. La legge mosaica consentiva all’interno del popolo di vendersi come schiavi, per salvare famiglie impoverite. (Es 21,2-11; 22,24-26; Lev 25; Deut 15; 24, 10-13). Consentiva anche il prestito ma vietava l’interesse. Ne consegue che «i giudei» non avevano propriamente violato la legge di Mosè, o comunque l’avevano violata solo in parte, nella misura in cui esigevano degli interessi, e non avevano praticato la remissione ogni 6 anni. È possibile che stessero aspettando i sei anni e non facessero di tutto per favorire la liberazione dei loro fratelli, o che avessero visto una forma di guadagno nell’interesse applicato sui prestiti. Qualunque fosse la situazione non la si risolve semplicemente prendendo la Legge in mano e facendo notare l’errore. Che fare? La prima risposta è mettersi a riflettere. Fermarsi. Pensare. Neemia non agisce d’impulso, ma pieno di indignazione riflette. È probabile che avesse pronti i passi dell’AT che impongono la liberazione degli schiavi ed il condono dei prestiti, ma non sceglie di sbandierarli davanti al popolo. Preferisce prima riflettere.

Come il popolo di Israele è capace di divisioni al suo interno, così la chiesa nei secoli ha visto numerose divisioni. Divisioni basate sul errori probabilmente chiari alla luce delle scritture, ma non facili da gestire. Forse in molti casi sono mancati dei leader capaci di riflettere dopo essersi indignati, e forse le parti avverse si sono fermate all’indignazione senza passare ad un momento di riflessione. Forse Neemia nella sua riflessione ha soppesato e meditato sui passi della Legge mosaica che permettevano prestito e schiavitù, ma al contempo li limitavano, ed ha poi invitato i suoi fratelli a soppesare i problemi. Di tutto il passo, rimango colpito dalla forza di quest’uomo che benché indignato trova la calma per rifletter tenere il popolo unito, e credo che egli sia un modello valido anche oggi. È valido anche per ognuno di noi che davanti ad imprese ben più piccole rispetto a quella di tenere unito un popolo si trova confrontato a diversi tipi di lotte e situazioni avverse, nelle quali riuscire a riflettere invece di esplodere di rabbia sarebbe certamente un primo passo verso la vittoria.

2. Un appello al senso di fraternità

Quale argomentazioni trova Neemia per convincere i «giudei» del loro errore ed aiutarli a correggersi? Segue un percorso in quattro semplici fasi:

1) In primo luogo dice chiaramente cosa non va. «Come? Prestate ad interesse ai vostri fratelli?» Sottolinea il legame tra giudei ed il popolo e ricorda loro che quando non camminano nel timore di Dio saranno «oltraggiati dai pagani». Neemia prende atto dell’opposizione tra ricchi e poveri, ed anziché radicalizzarla, invitando i poveri a rivoltarsi o cercando di ristabilire la giustizia con una rivoluzione, fa notare al popolo che dovrebbero prendere in considerazione un’altra opposizione: quella tra loro e i pagani. Questo non perché i pagani siano intrinsecamente cattivi o riprovevoli, ma semplicemente perché Neemia sa che Dio raggiungerà anche i pagani attraverso il messaggio che farà passare dal popolo di Israele. Se però il popolo è disunito il popolo viene oltraggiato e con esso il nome di Dio. I giudei, tenendo in schiavitù i loro fratelli hanno dato un pessimo esempio a coloro a cui avrebbero dovuto mostrare la grandezza di Dio. Basando il problema sul piano della legge, i giudei avrebbero potuto dire che la legge permetteva in parte le loro azioni. Ma il contesto più ampio del piano di Dio mostra che anche cose legittime non sono utili e che c’è qualcosa di più alto verso cui puntare, che la semplice legittimità di una pratica. Temere Dio significa capire non solo la regola, ma il senso della regola id il fine più ampio della legge.

2) In secondo luogo Neemia invita a restituire e condonare, sempre in nome del timore di Dio (v.10-11) cosa che i giudei accettano prontamente.

3) Invita ad impegnarsi con un patto davanti ai sacerdoti (v.12)

4) Aggiunge una minaccia per chi non si comporterà secondo l’impegno preso.

Nei secoli a seguire il popolo ha trovato nuovi motivi di disunità, ed in seguito la chiesa, innestata nel popolo di Dio ha ugualmente conosciuto numerose divisioni. Molte di queste sono necessarie e l’unità ad ogni costo dà pessime testimonianze come la disunità. Tuttavia varrebbe la pena osservare come il «metodo Neemia» sia troppo spesso disatteso. Quanto sarebbe bello vedere persone capaci di non adirarsi, capaci di far riconoscere i loro errori agli altri, invocando l’importanza dell’unità, con conseguenti impegni. Quanto sforzo c’è ancora da fare perché il nostro timore di Dio aumenti e perché il nome di Dio non sia oltraggiato…

3. Un appello a Dio

Tutta la procedura di Neemia poggia su un costante appello a Dio. È il riferimento a Dio che fa la differenza tra il popolo e i pagani; è il timore di Dio che è invocato per convincere dell’errore; è Dio che sarà testimone del patto e che «scuoterà» chi non lo dovesse rispettare. Dopo il pentimento e l’impegno a restituire l’assemblea celebra il Signore (v.13). È molto bello vedere questo popolo che dopo aver ritrovato la sua unità tra uomini, si pone davanti a Dio e lo celebra, ristabilendo anche la sua unità con Dio. Non sappiamo se prima avessero celebrato, ma certamente qualora l’avessero fatto non sarebbe stata una celebrazione che saliva a Dio pacificamente. Per celebrare Dio bisogna prima aver rinsaldato i legami con i fratelli e trovato quella comunione con chi si vede e che viene da chi non si vede.

Questo ci fa riflettere molto sul nostro modo di fare il culto. Non possiamo fare un culto laddove tra di noi ci siano segni di divisione e di rottura, o ancora peggio di prevaricazione e sfruttamento. Se è impossibile – e probabilmente sbagliato – unire tutte le chiese del mondo in una sola, è invece molto importante, sul piano locale, tra persone che si vedono come quelle del popolo che Neemia guida, essere veramente attenti all’unità, alla collaborazione, all’aiuto. Laddove questo mancherà il possiamo celebrare quanto vogliamo, ma questa celebrazione non salirà al cielo…

Conclusione

Nella parte finale del capitolo Neemia fornisce un breve spaccato della sua vita. Capiamo bene che quanto ha detto e fatto ha credibilità perché il suo stile di vita è stato coerente. Avrebbe potuto arricchirsi e avvalersi di certi privilegi, ma non l’ha fatto. Può concludere tranquillamente con l’invocazione: Dio ricordati di me per farmi del bene. Sembrano le parole di uno che scrive a posteriori, a cose ormai fatte. Forse molti anni sono passati, ed il popolo si è di nuovo diviso, ed ha conosciuto nuove difficoltà… L’invocazione non significa certo: «Dio mio guarda come sono bravo», ma piuttosto: «ho fatto quello che potevo, vedo che in tante cose non sono riuscito», nondimeno ho provato a fare del bene per il tuo popolo… Ricordati di me! Che questa sia anche la nostra invocazione, nella misura in cui non riusciremo a creare chiese perfette, tutte in comunioni, esenti da problemi. Ma se abbiamo provato a fare delle cose, potremo invocare Dio perché ci ricordi.