La trasfigurazione. Matteo 17: 1-13

Matteo 17: 1-13

Credo che ognuno di noi abbia almeno una volta nella vita provato l’esperienza di sentirsi “ricaricato” spiritualmente. In genere capita dopo periodi intensi di riflessione o vita comunitaria, come quelli che si vivono in campeggi o conferenze, o ancora dopo un incontro particolarmente edificante. Si tratta di esperienze utili che però dobbiamo imparare a gestire perché non rimangano dei momenti isolati rispetto ad una vita spirituale deludente, che è felice solo quando fa cose straordinarie. Il passo che leggiamo oggi ci aiuta proprio a riflettere su questo.

1. La trasfigurazione

L’episodio che abbiamo letto è unico e in nessun altra parte della Scrittura assistiamo a una scena simile. Questa spettacolo è riservato al trio Giacomo, Giovanni e Pietro, i più intimi tra gli amici di Gesù, tra i primi a camminare con lui (manca Andrea) che gustano l’anticipazione di qualcosa che poi anche altri potranno vedere. I tre salgono assieme a Gesù su un monte, probabilmente uno dei monti dell’Ermon, luogo importante da un punto di vista simbolico – si pensi al monte Sinai su cui viene data la legge, o al monte del sermone su cui Gesù dà la sua nuova legge – e questi assistono ad uno spettacolo straordinario: usiamo il termine trasfigurazione, potremmo anche dire trasformazione (così in greco) e possiamo solo immaginare che abbiano visto Gesù brillare di una luce intensa, particolare, trasformante. A questo si aggiunge la presenza di personaggi deceduti e molto importanti per loro, rappresentanti della Legge e dei profeti, e infine la voce che scende dal cielo preceduta dalla nuvola, segno della presenza di Dio. L’insieme di quello che hanno vissuto ha un grande impatto su di loro, e la proposta di Pietro sembra che miri a protrarla. Pensiamo al contesto in cui ci troviamo: dopo la dichiarazione di Pietro su Gesù, i discepoli sono spaventati dalla prospettiva della morte del messia. Questa esperienza è necessaria per rinfrancarli e rassicurarli.

Esperienze simili sono importanti per la vita della fede. Forse nessuno di noi ha vissuto qualcosa di uguale alla trasfigurazione, ma tutti abbiamo bisogno di momenti particolarmente intensi in cui avvertiamo la presenza del Signore in modo particolarmente forte. Questo è sicuramente ciò che avviene quando si comincia, quando ci convertiamo, soprattutto per chi viene dall’ateismo o da una vita completamente lontana dal Signore. È importante non certo inventare, o provocare artificialmente esperienze spirituali, con suoni musiche o simili. Ma è anche molto importante sapere ricercare del tempo e delle occasioni per viverle, perché la nostra fede si nutre di questa componente soprannaturale, e non deve essere piatta, solo razionale, fredda. La forza dello Spirito Santo consiste nel fare vivere anche a noi esperienze forti come questa della trasfigurazione.

Per me ci sono state campagne missionarie che hanno avuto un impatto quasi simile, e l’esaltazione euforica durata alcuni giorni ha poi sostenuto i momenti più normali o anche deludenti della vita quotidiana. Non vanno dunque banalizzati i momenti di forte spiritualità che certi contesti al di fuori della norma provocano. Valorizziamoli con le dovute precauzioni.

2. La trasfigurazione, contenuto e pratica.

Per quanto l’esperienza che il trio Pietro Giovanni e Giacomo vive sia spirituale e non facilmente descrivibile con il linguaggio umano, ci sono elementi che inquadrano questa esperienza in una cornice ben precisa. Se è difficile descrivere cosa accade esattamente, non si può dire che si tratti di una spiritualità disordinata, vaga, in cui ci sono solo forti sensazioni spaesanti o emozioni deliranti.

Continuità. L’esperienza è inquadrata in un cammino ben preciso: sono presenti due autorevolissimi defunti, Mosè ed Elia. Essi incarnano però una continuità con un messaggio ben preciso: quel Dio che trasfigura Gesù, che trasforma le sue vesti e il suo volto è quel Dio che ha dato una Legge che rivela la sua volontà. È quel Dio che ha mandato dei profeti, come Elia, che hanno tuonato contro l’idolatria e corretto il cammino del popolo di Israele. Si può anche ricordare quel meraviglioso passo (I re 19) in cui Elia si rifugia sul monte Oreb, e dopo un vento, un terremoto e un fuoco sente un mormorio di vento leggero, ma si copre la faccia con il mantello, perché sa bene di non poter sostenere la presenza del Signore. Qui invece Dio si lascia vedere attraverso Gesù e questa visione non è pura esaltazione mistica, ma ha un contenuto: Dio si rivela, fa sentire la sua presenza, e il messaggio della sua legge giunge qui nella sua pienezza.

Ascoltatelo: la voce dal cielo conferma ancora una volta quanto era stato rivelato al battesimo di Gesù, quanto Pietro aveva detto per rivelazione divina, e ora quanto il trio degli amici di Gesù può contemplare. Ma il comandamento ascoltatelo ci fa capire come l’esperienza spirituale sia anche strettamente legata ad un contenuto pratico: ascoltare Gesù significa anche fare qualcosa, seguire i suoi comandamenti, obbedire a quello che ha detto di fare: amare Dio come se stesso e il prossimo come se stesso. L’esperienza spirituale trova quindi la sua forza e la sua legittimità nell’inserirsi nel solco della dottrina e nella prassi di vita improntata ai comandamenti di Gesù.

È importante ricordare che quando parliamo di Dio e della fede non stiamo semplicemente parlando di qualcosa che non è materialistico, e che si distingue da interessi bassi, istintuali, consumistici o commerciali. Parlare di fede significa sì affermare che l’essere umano non è limitato ad una sola dimensione, quella corporea e materiale, ma che ha una dimensione profonda, spirituale, ma non finisce qui. Questo lo dicono tutte le religioni, anche quelle più curiose e innovative come la new age. Parlare di spiritualità significa inserire una vocazione verso l’alto, ad un contenuto ben preciso che le Scritture rivelano e illustrano, e significa tradurre nella pratica i comandamenti che queste implicano, altrimenti non si tratta di vera spiritualità, ma di euforia, di emotività, di esperienzialismo.

3. Scendere dalla montagna.

La conclusione di questo passo potrebbe sembrare deludente. I discepoli si spaventano della voce, Gesù li tocca e li rassicura e scendono dalla montagna. La velleità di costruire tende è finita e bisogna tornare con gli altri, e nel caos che caratterizza la pianura. Gesù vieta loro di parlare di questa visione perché probabilmente non farebbe che alimentare leggende. È stata segno della resurrezione e una volta questa avvenuta sarà chiaro che la trasfigurazione di Gesù anticipava il suo corpo risorto dopo la resurrezione, evitando speculazioni. Dopo questo incoraggiamento è venuto il momento di tornare a vivere nella quotidianità.

Cosa succede nella quotidianità? Circolano credenze, come quella che i tempi messianici sarebbero stati preceduti dalla venuta di Elia: Gesù conferma la credenza degli scribi secondo cui Elia deve tornare, ma precisa che non è stato riconosciuto. Giovanni il battista è stato ucciso. La quotidianità quindi è un posto brutto, un posto in cui si parla di Dio, si fanno speculazioni, si aspetta, ma tutto ciò avviene spesso in modo confuso e distorto e i profeti di Dio vengono uccisi.

I discepoli scesi dalla montagna non hanno vissuto un’esperienza spirituale fine a se stessa, o una piccola consolazione dopo lo spavento preso dal sapere che il messia sarà ucciso. Hanno ricevuto un chiaro messaggio sulla bellezza della vita spirituale. Hanno saputo che già qui si può vivere in una trasformazione. La vita con Dio è trasformata, è trasfigurata dalla sua luce, può vibrare in sintonia con Dio. Ma questo lo si vive portando la croce e grazie a quell’esperienza il peso della croce è più lieve.

Questo passo ci impone una domanda: cosa conserviamo delle nostre esperienze spirituali? Come ci trasformano, come ci trasfigurano, cosa ci lasciano? Perché siano autentiche e in qualsiasi forma esse si presentino, si tratta di esperienze che hanno un contenuto ben preciso, e che ci aiutano a camminare nella vita, portando la croce.