Il contesto in cui nasce la lettera
Ci troviamo davanti ad uno dei documenti più antichi della fede cristiana. La prima lettera ai Tessalonicesi sembra essere stata scritta intorno all’anno 50, ed è forse la prima epistola scritta da Paolo ad una chiesa. Prima ancora dei vangeli abbiamo un documento di quelle che furono i tratti di una delle prime chiese che circa una ventina d’anni dopo la morte di Cristo diventava nota per alcune sue caratteristiche.
Per evitare di leggerla in modo astratto, lontano dal contesto in cui è nata, leggiamo qualche passo dal libro degli Atti che ci racconta dell’arrivo di Paolo e dei suoi compagni di missione in Macedonia – la regione di cui Tessalonica era la capitale – e poi nella città.
Atti 16, 6-10.
Poi attraversarono la Frigia e la regione della Galazia, perché lo Spirito Santo vietò loro di annunciare la parola in Asia; 7 e, giunti ai confini della Misia, cercavano di andare in Bitinia; ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro; 8 e, oltrepassata la Misia, discesero a Troas. 9 Paolo ebbe durante la notte una visione: un macedone gli stava davanti, e lo pregava dicendo: «Passa in Macedonia e soccorrici». 10 Appena ebbe avuta quella visione, cercammo subito di partire per la Macedonia, convinti che Dio ci aveva chiamati là, ad annunciare loro il vangelo.
Paolo non si reca in Macedonia in base ad un piano arbitrario o alle sue aspirazioni turistiche. Sa di essere in missione per Dio e risponde ad un mandato che viene guidato da Dio. Come Filippo fu guidato da Dio nel recarsi a parlare all’eunuco (Atti 8), ugualmente Paolo è guidato da Dio che usa questa visione per annunciare il vangelo in Macedonia. Viene da dire in una parola: che anche i nostri sogni e progetti evangelistici ricerchino la guida di Dio. Non necessariamente in termini di visioni o sogni, ma comunque e sempre in un atteggiamento di profondo ascolto, lontano dall’arbitrarietà, dalle aspirazioni personali o dalle semplici circostanze.
La prima città interessata è Filippi con la conversione di Lidia. Una grande gioia, ma subito dopo Paolo e Sila in prigione accusati di turbare la città. In seguito:
Atti 17,1 Dopo essere passati per Amfipoli e per Apollonia, giunsero a Tessalonica, dove c’era una sinagoga dei Giudei; 2 e Paolo, com’era sua consuetudine, entrò da loro, e per tre sabati tenne loro ragionamenti tratti dalle Scritture, 3 spiegando e dimostrando che il Cristo doveva morire e risuscitare dai morti. «E il Cristo», egli diceva, «è quel Gesù che io vi annuncio». 4 Alcuni di loro furono convinti, e si unirono a Paolo e Sila; e così una gran folla di Greci pii, e non poche donne delle famiglie più importanti. 5 Ma i Giudei, mossi da invidia, presero con loro alcuni uomini malvagi tra la gente di piazza; e, raccolta quella plebaglia, misero in subbuglio la città; e, assalita la casa di Giasone, cercavano di trascinare Paolo e Sila davanti al popolo. 6 Ma non avendoli trovati, trascinarono Giasone e alcuni fratelli davanti ai magistrati della città, gridando: «Costoro, che hanno messo sottosopra il mondo, sono venuti anche qui, 7 e Giasone li ha ospitati; ed essi tutti agiscono contro i decreti di Cesare, dicendo che c’è un altro re, Gesù». 8 E misero in agitazione la popolazione e i magistrati della città, che udivano queste cose. 9 Questi, dopo aver ricevuto una cauzione da Giasone e dagli altri, li lasciarono andare.
Anche qui grande entusiasmo iniziale a cui segue una delusione provocata dalla persecuzione. Segue la predicazione a Berea, che nuovamente è ben accolta persino nella sinagoga, ma arrivano quelli di Tessalonica che vogliono continuare la persecuzione cominciata e Paolo è costretto a fuggire ad Atene. Paolo ha risposto alla visione, ha evangelizzato 3 città, ma ora deve fuggire perché l’opposizione è troppo forte. Arriva ad Atene dove l’accoglienza del vangelo è relativamente tiepida ed infine a Corinto, dove di nuovo la prima accoglienza nelle sinagoghe è negativa. Cerchiamo di immaginare lo stato d’animo di quest’uomo che in risposta ad una visione percorre una regione pieno di speranze, e ne ricava persecuzione, qualche conversione, ma apparentemente niente più. A Corinto c’è bisogno di una nuova visione che lo fortifichi, e lo incoraggi a restare a Corinto per 6 mesi, altrimenti probabilmente per timore dei giudei sarebbe venuto via. In questo contesto di vaga delusione, ecco che arrivano a Corinto Sila e Timoteo, i fedeli collaboratori, ed è probabilmente in questa occasione che raccontano di come vadano le cose a Tessalonica. E da quanto capiamo raccontano fatti molto edificanti, dicono che questa chiesa, nonostante le normali difficoltà di ogni chiesa, va avanti bene! Il viaggio in Macedonia non è stato inutile, e la visione che lo motivava non era vana. Il frutto è arrivato ed ecco che la gioia di Paolo esplode. Sin dall’inizio della lettera avvertiamo una felicità vibrante nelle parole dell’apostolo, un piacere di ricordare, e di contemplare l’opera dello Spirito nella vita di questa chiesa.
Prima di procedere alla lettura vorrei trarre incoraggiamento da questo passo per la vita della chiesa oggi, per la missione, per la fondazione di chiese e qualsiasi cosa riguardi la diffusione del vangelo. Dobbiamo avere la ferma convinzione che quando tutto ciò procede dal Signore, è guidato da lui, le cose vanno avanti perché sono nelle mani di Dio. È il Signore che fa crescere la sua chiesa, e la mancanza di successo nell’immediato non significa che il seme del vangelo non sia stato piantato. Paolo passa tre mesi a Tessalonica e sicuramente vede dei frutti: si convertono molti greci pii, delle nobildonne, e alcuni giudei; ma la persecuzione del resto dei membri della Sinagoga lo costringe a scappare. Nessuno ci costringe a scappare oggi in Europa, eppure l’aridità spirituale del mondo in cui viviamo ci scoraggia in molti modi. La sordità spirituale, la disaffezione per le cose di Dio, il terreno rovinato da millenni di cristianesimo profondamente eretico. Eppure se Dio ha mandato la sua parola non rimarrà infruttuosa, e ci sarà nella nostra vita un momento in cui vivremo la gioia che Paolo ha provato a Corinto sentendo parlare di Tessalonica.
Leggiamo solo i primi tre versi di apertura e questi commentiamo.
Paolo, Silvano e Timoteo alla chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: grazia a voi e pace.2 Noi ringraziamo sempre Dio per voi tutti, nominandovi nelle nostre preghiere, 3 ricordandoci continuamente, davanti al nostro Dio e Padre, dell’opera della vostra fede, delle fatiche del vostro amore e della costanza della vostra speranza nel nostro Signore Gesù Cristo.
Ringraziare, nominare, ricordare.
Il rapporto tra Paolo e coloro presso cui ha annunciato il vangelo può essere stato intenso ma comunque è stato limitato nel tempo. Tre settimane, non di più. Non sappiamo quanto a fondo abbia conosciuto le persone che si sono convertite e che egli senza dubbio ha provveduto ad istruire ponendo in loro le fondamenta della fede Cristiana. Questo rapporto ora si ravviva attraverso una lettera ma non solo. Paolo intrattiene rispetto a questa chiesa un continuo rapporto fatto di preghiere rivolte a Dio per queste persone. Paolo ringrazia felice. Paolo nomina. Paolo ricorda le caratteristiche. Non so quale sia la vostra disciplina di preghiera per i fratelli e le sorelle sia della nostra che di altre chiese, ma passi come questo non lasciano molti equivoci: Paolo ha scoperto la gioia di tenere vivo un rapporto in preghiera, e le sue preghiere non sono distratte e vaghe, ma specifiche, rivolte a nomi precisi e riguardanti delle caratteristiche importanti della vita cristiana.
Ringraziare per le persone in cui abbiamo seminato il vangelo. Menzionarle nelle preghiere. Ricordare le loro qualità. È importante prendere come modello Paolo e fare qualcosa di simile. È importante nel tempo che consacriamo quotidianamente alla preghiera avere degli schemi, delle liste anche di persone che vogliamo ricordare (almeno per chi come me ha poca memoria), per tornare pregare per loro, a ringraziare per loro.
L’opera della vostra fede, le fatiche del vostro amore, la costanza della vostra speranza.
Perché Paolo è contento e può dire che ringrazia per la chiesa di Tessalonica da lui stesso fondata? Perché questa chiesa, come leggeremo più avanti, è nota tra le altre chiese? Cosa hanno di speciale questi fratelli? Questa sorta di trinità virtuosa, fatta di doni cristiani, compare più volte negli scritti di Paolo: fede, speranza, amore. Nell’epistola ai Tessalonicesi ognuna di queste virtù viene arricchita di una caratteristica supplementare, su cui ci soffermiamo.
L’opera della vostra fede. Che parola paradossale nella penna dell’apostolo Paolo! Il Paolo che conosciamo come colui che pone fede ed opere in contrasto, che insiste a più riprese che la salvezza è per sola fede, e mai «per opere perché nessuno si vanti», riunisce in questo versetto i due elementi in un’unica realtà: la salvezza è per sola fede, ma una volta accolta la salvezza esiste un’opera della fede! Una fede che opera, e che per essere tale deve operare. Cosa avranno raccontato Sila e Timoteo a Paolo della fede dei tessalonicesi? Ebbene devono avere raccontato che quella trasformazione interiore provocata dalla fede che ha rinnovato le vite delle persone che hanno accettato il vangelo non è rimasta ferma ad autocontemplarsi, o a groggiolarsi nella gioia di una salvezza raggiunta. Quella fede ha operato. Celebriamo quest’anno il cinquecentenario della Riforma protestante. Se dopo 500 anni ci sono ancora tante chiese che reclamano l’importanza del sola fede, se nel corso degli anni queste chiese hanno inciso sulla società europea, se hanno modificato le coscienze e le strutture e salvato anime, è perché la «sola fede», non è rimasta una «fede sola», ma è diventata un motore di opere. Dalla lettura di queste parole siamo chiamati a chiederci: quando chi ci conosce ci visita, rimarrà impressionato dall’opera della nostra fede? Potrà andare a raccontare che a Lucca la fede dei singoli ha prodotto opere grandi, ha inciso sulla società lucchese, si è resa nota per opere degne di merito, per aiuti concreti agli altri, per atti di amore, per segni che hanno fatto la fede qualcosa di realmente potente e diverso? L’esempio dei Tessalonicesi è quello di una fede che opera, che vive nella gratitudine e vuole fare la volontà del padre.
Le fatiche del vostro amore. Il secondo elemento non è meno importante. Quell’amore chiamato in greco agape, che con il cristianesimo conosce un uso rinnovato e più intenso quell’amore disinteressato, autentico, interamente dedito all’altro, è un’altra caratteristica dei tessalonicesi. Sull’amore ci sarebbe da parlare all’infinito, ma Paolo ci fa un favore definendo il campo: l’amore che caratterizza i tessalonicesi è un amore che fa delle fatiche. Non è un amore romantico, né un amore superificale fatto di slogan come peace and love, o di emozioni autoerotiche. L’amore dei tessalonicesi conosce fatiche. Il termine usato in greco, kopos, indica proprio un lavoro faticoso, pesante, fastidioso, che è tutto il contrario del piacere normalmente associato all’amore. È un amore che prende come modello quello di un Dio che «ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita etenra» (Gv 3,16). Non è un atto leggero quello di lasciare morire il proprio figlio. Dio lo ha fatto perché ha accettato il dolore dell’amore, la fatica dolorosa dell’amore. I tessalonicesi in risposta a questo amore che li ha toccati, ha accettato sofferenze e dolori nel servirsi gli uni gli altri. Non hanno intrapreso una strada di divertimenti, ma una strada di servizio gioiosi, benché sofferente. Tenuti in piedi da quella fede incrollabile, ancorata al Dio Padre che spinge ad operare. Ma per operare ci vuole un amore pronto a soffrire, e questo Dio lo dà.
Evitiamo la falsa modestia: noi conosciamo questo tipo di amore. Prendiamo l’esempio dei genitori. Traiamo infinite gioie dai figli, ma saremmo falsi se dicessimo che il nostro amore per loro non conosce fatica. Possiamo dire forse che sono fatiche accettiamo volentieri perché c’è qualcosa di naturale, quasi di biologico nell’amore che portiamo verso i nostri figli. Ci possiamo arrabbiare, infastidire, ma quello che prevale è un amore infinito per quelle che sono le nostre creature. Dio, prendendo ad esempio i Tessalonicesi che faticano nell’amore, ci invita ad estendere questo amore che riserviamo a categorie particolari come i figli, a tutti. E se non è possibile servire tutti come figli, visto che no a caso abbiamo sempre un numero limitato di figli, siamo comunque chiamati ad prendere il modello di colui che è morto per noi, per i pochi casi umani che Dio ci mette davanti nella vita.
La costanza della speranza. La fede è il motivo, l’inizio di tutto, ciò per cui i Tessalonicesi sono quello che sono. L’amore è il loro pane quotidiano che fatica nel servizio, quindi il loro presente. La speranza, fondata sull’opera di Cristo per loro, è un elemento di certezza per il futuro. Non vivono solo della consapevolezza di quello che Dio ha fatto per loro, e di cosa devono fare nel presente, ma vivono come persone protratte verso il futuro, in una speranza attiva e assolutamente certa.
Si può sperare in tanti modi. Dicendo vagamente: «Speriamo…» in modo fatalista, o poco fiducioso. Lo si può dire con una sottomissione che non ha però elementi di certezza definitiva, come chi dice inshalla! Si può infine sperare in una modalità che è affine alla certezza. Qui è in gioco l’idea di ritorno di Cristo, di speranza futura in un fatto certo come fu certo l’evento passato della resurrezione su cui la fede si basa. Si tratta di termini blasfemi per la modernità che si compiace della liquidità del mondo in cui nuotiamo, e che gode, o assiste inerte, davanti al dissolvimento dei punti di riferimento. La costanza della fede non è una virtù, è la conseguenza di una vita incentrata in Dio. Paolo ha scritto alla chiesa che è in Dio, e che in Dio ha grazia e pace. Laddove questi sono i presupposti i credenti non sono smarriti davanti agli sbandamenti, alle persecuzioni e alle avversità che comunque si presentano. Sono caratterizzati da fede operante, da amore pronto a soffrire, e da speranza costante, perché la base, Cristo, li rende tali. Non sono virtuosi di virtù propria, ma fedeli nello stare aggrappati al Signore.
Questo fu la gioia di Paolo. Che sia anche la nostra nel vedere la chiesa di oggi seguire le orme di Tessalonica. AMEN
Stefano M.