Capita spesso di sentire l’elogio di persone che sanno ascoltare. Con questo si intendono persone che sono pronte a fermarsi a sentire cosa uno ha da dire, a recepire problemi tacendo, ma stando attenti. Sono psicologi, mentori, confidenti. C’è però un secondo senso del saper ascoltare. Quello che consiste nel non trascurare consigli, insegnamenti, ordini o comandamenti che ci vengono dati. Lo si riferisce spesso ai bambini, magari per lamentarsi che non ascoltano! La parabola che leggiamo oggi riguarda proprio questo secondo senso.
Si è osservato che il vangelo di Matteo è organizzato intorno a 5 grandi discorsi. In questi Gesù dispensa importanti insegnamenti senza fare azioni particolari. Abbiamo visto nei capitoli 5,6,7 il primo grande discorso, detto “sul monte”. Nel capitolo 13 di Matteo abbiamo il secondo, che parla di parabole e del modo di interpretarle.
1 In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; 2 e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva. 3 Egli insegnò loro molte cose in parabole, dicendo:
«Il seminatore uscì a seminare. 4 Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. 5 Un’altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; 6 ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. 7 Un’altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. 8 Un’altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9 Chi ha orecchi oda».
(non commento questa parte, verrà commentata la prossima settimana)
10 Allora i discepoli si avvicinarono e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?» 11 Egli rispose loro: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ma a loro non è dato. 12 Perché a chiunque ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza; ma a chiunque non ha sarà tolto anche quello che ha. 13 Per questo parlo loro in parabole, perché, vedendo, non vedono; e udendo, non odono né comprendono. 14 E si adempie in loro la profezia d’Isaia che dice:
“Udrete con i vostri orecchi e non comprenderete; guarderete con i vostri occhi e non vedrete; 15 perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile: sono diventati duri d’orecchi e hanno chiuso gli occhi, per non rischiare di vedere con gli occhi e di udire con gli orecchi, e di comprendere con il cuore e di convertirsi, perché io li guarisca“. 16 Ma beati gli occhi vostri, perché vedono; e i vostri orecchi, perché odono! 17 In verità io vi dico che molti profeti e giusti desiderarono vedere le cose che voi vedete, e non le videro; e udire le cose che voi udite, e non le udirono.
Riprendo qui
18 «Voi dunque ascoltate che cosa significhi la parabola del seminatore! 19 Tutte le volte che uno ode la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e porta via quello che è stato seminato nel cuore di lui: questi è colui che ha ricevuto il seme lungo la strada. 20 Quello che ha ricevuto il seme in luoghi rocciosi, è colui che ode la parola e subito la riceve con gioia, 21 però non ha radice in sé ed è di corta durata; e quando giunge la tribolazione o persecuzione a motivo della parola, è subito sviato. 22 Quello che ha ricevuto il seme tra le spine è colui che ode la parola; poi gli impegni mondani e l’inganno delle ricchezze soffocano la parola che rimane infruttuosa. 23 Ma quello che ha ricevuto il seme in terra buona è colui che ode la parola e la comprende; egli porta del frutto e, così, l’uno rende il cento, l’altro il sessanta e l’altro il trenta».
1. La potenza della parola (o dei dei 4 terreni)
Preferirei chiamare questa parabola, con questo titolo. Il titolo consueto, usato da Gesù stesso e quindi perfettamente pertinente e utile a ricordare il soggetto, porta la nostra attenzione sul seminatore. A ben guardare questa parabola non parla tanto del seminatore, ma dei terreni che recepiscono. Non è quindi tanto una parabola sul seminare, quanto piuttosto sul ricevere il seme e dare frutto. La parabola non necessita di grandi spiegazioni perché Gesù stesso la spiega ai discepoli. Tuttavia vorrei sottolineare alcuni aspetti molto belli del paragone tra seme e parola:
– Come il seme la parola viene piantato e se attecchisce in un cuore cresce e porta frutto. Non siamo abituati a considerare tale il fiume di parole che ci investe ogni giorno, ma questa parabola ci deve portare a riflettere sul grande potere delle parole.
– Come il seme la parola è fragile. Non è fragile in sé, ma lo in base ai terreni che incontra. Non attecchisce dappertutto essendo molti terreni inadatti a produrre.
Potenza. Cos’è il seme? Cos’è la parola del regno? Sono tutte le parole che provengono chiaramente da Dio e si incarnano in situazioni ben precise. Dio ci può parlare con delle situazioni, con delle persone che ci danno un consiglio, con degli incidenti o con degli errori. Ma soprattutto ci parla con la sua Parola, la Scrittura, sia essa letta personalmente o predicata la domenica in chiesa. Dico questo perché Dio si servirà per parlarci di persone, situazioni, incidenti, nella misura in cui questi ci fanno capire qualcosa in base alla Scrittura. Inquadriamo quello che succede in un discorso più ampio che è la nostra visione del mondo derivata dalla Scrittura. Quindi ciò che sentiamo direttamente dalla Scrittura, in una predicazione, in una lettura, in un podcast o in un video è quella parola del Regno che ci viene da Dio. È potente e può avere conseguenze importanti sulla nostra vita. Riguarda sicuramente le folle, cioè persone che non credono, e in questo caso la parola del regno per loro è una parola che deve portare alla conversione. Ma Gesù si prende la briga di spiegarla ai discepoli, quindi la parola del regno è tutto ciò che riguarda la loro crescita spirituale, la loro santificazione. Vuole portare a crescere e ad essere una benedizione per loro e per gli altri. L’esito finale del seme che viene soffocato, portato via o che muore, riguarda sia una vita completamente persa, che una vita di persone che possono anche aver creduto, ma che per un tempo più o meno lungo rimangono immaturi, tristi, spiritualmente aridi… La parola è potente per cambiare vite e necessaria per mantenere in vita le vite rigenerate.
2. La Fragilità della parola (o dei terreni)
Gli uccelli. L’immagine del seminatore derivata dal contesto agricolo è perfettamente adattabile al nostro mondo moderno. Direi che viviamo in un mondo paurosamente pieno di uccelli! Riceviamo ogni minuto messaggi da una quantità di canali diversi: telefono, sms, whatsapp, mail, messaggeria di FB, messaggi di Instagram, notifiche… Mentre leggiamo la Bibbia sul nostro smartphone una notifica ci fa vedere una richiesta pressante di un amico, e un’altra ci ricorda che dobbiamo pagare una tassa che scade a breve. Mentre clicchiamo sull’una o sull’altra il telefono squilla e allora rispondiamo, e mentre stiamo parlando con chi ci ha chiamati arriva un’altra chiamata, magari da whatsapp o da Skype… Nessuno di noi abbandonerà mai né gli smartphone, né i numerosi canali di comunicazione, ma dobbiamo prendere atto della fragilità della parola. È importante pensare che per essere una terra buona dobbiamo saper ritagliare momenti in cui gli uccelli stanno lontani! Momenti di assoluto silenzio, di blocco delle notifiche, di spegnimento dei telefoni perché altrimenti la parola non penetrerà.
La radice. La parabola parla di persone che non hanno radice e quindi dopo l’entusiasmo iniziale si scoraggiano perché la parola implica delle sofferenze e persino delle persecuzioni (il sole). È vero infatti che il vangelo presenta tanti aspetti accattivanti che possono attirare chiunque. Vediamo che Gesù sta parlando a delle folle, quindi ci sono sicuramente tra chi ascolta persone molto attirate dal carisma di Gesù, dai suoi miracoli, da ciò che possono ottenere da lui, ma non dalle implicazioni profonde della parola. Ultimamente mi è capitato di leggere alcuni articoli sul problema delle chiese che si pongono come prodotti di mercato. Consapevoli che siamo in un mondo in cui il marketing conta moltissimo e che ognuno di noi è abituato ad essere un consumatore, corriamo il rischio per presentare il vangelo come un prodotto commerciale, sforzandoci di renderlo più accattivante e attraente possibile. Quindi curiamo l’estetica del locale, della musica, cerchiamo di avere quante più riunioni possibile per più gusti possibile. Questo può facilmente scivolare verso le esigenze che abbiamo sulla parola: vogliamo un bel messaggio che ci faccia stare bene; un messaggio non troppo lungo, un po’ spiritoso, che magari confermi quello che facciamo e scusi i nostri difetti. Se cerchiamo questo probabilmente la parola del regno non ha affondato in noi radici profonde, e non appena quella parola ci chiederà dei sacrifici, saremo pronti a lasciarla per un prodotto commercialmente più accattivante.
Le spine. Penso che non esista un’epoca in cui “impegni mondani e inganno delle ricchezze” che Gesù chiama spine non costituiscano un ostacolo importante alla parola del regno. Gli impegni mondani non sono altro che ciò che abbiamo deciso di fare. La nostra frase tipica: “non ho tempo” non è altro che una formulazione inesatta per dire che abbiamo scelto una serie di cose in cui investire il nostro tempo. A volte arriva qualcuno che mi chiede di dargli dei soldi per una qualche iniziativa di solidarietà. Ho imparato a non rispondere mai: “Non ho soldi”, che sarebbe una bugia, ma a dire che per poter aiutare concretamente gli altri bisogna scegliere alcuni canali e in quelli investire. Così è del tempo, compreso quello di ascolto della parola e quello della sua crescita. Ci sono persone che sembrano entusiaste di aderire al vangelo – purché questo lasci loro tutta la libertà di fare tutto quello che vogliono per divertirsi, arricchirsi, curare i loro interessi. Desiderano un vangelo che in sostanza non trasformi la loro vita.
Dobbiamo metterci davanti ad una scelta chiara e renderci conto di quale sia la posta in gioco: vogliamo un vangelo stravolgente che ci porterà a dare tutta la nostra vita, il nostro tempo, i nostri soldi per la sua causa oppure vogliamo un vangelo menomato, ridotto, depotenziato, che si accontenta di una frequentazione sporadica o regolare di una chiesa, o di qualche buona opera, tanto per sentirsi la coscienza a posto? La bellezza della metafora del seme ci si pone davanti e ci rivela una realtà che preferiremmo rimanesse nascosta: ciò che in questo mondo brilla in realtà è spine, rovi. Il vangelo che inizialmente è piccolo e non si vede è un seme che porterà un albero eccezionale! Che terremo vogliamo essere?
3. La parabola del seminatore
Riportiamo l’accento ora sul seminatore perché è Gesù a chiamare così questa parabola. All’inizio ho voluto sottolineare l’importanza dei terreni, ma credo che la forza di questa parabola non debba adombrare il seminatore. Qualcuno leggendo potrebbe pensare che c’è una sorta di determinismo rispetto ai terreni: chi è roccioso è tale e può farci poco, e che è spinoso resterà vittima delle proprie spine. La buona notizia contenuta nell’azione del seminatore è invece che non siamo predestinati ad essere un suolo arido, spinoso o roccioso. Notiamo bene che un seminatore selettivo e interessato solo ai frutti starebbe attentissimo a dove semina, scegliendo accuratamente dove porre i suoi semi. Questo seminatore invece sembra più interessato a tutti i tipi di terreno possibile e non si stanca di gettare seme in terreni aridi, in strade e in luoghi spinosi, dove la probabilità che ci sia molto frutto scarseggia. C’è un Dio che non si stanca di seminare per noi e in noi. C’è un Dio che sa che il nostro terreno può cambiare, che se è stato roccioso lo può dissodare, che le spine possono essere tagliate e che si può fare spazio ai campi dove ci sono strade. È verissimo che la parabola riguarda il nostro modo di ascoltare, ma per dire che chi ascolta riceve dal seme qualcosa di enormemente potente, perché è potente colui che l’ha seminato.
Quando il seme cade nella buona terra può fare poco o molto, ma farà. Alcuni 100 altri 60 altri 30, ma tutti daranno qualcosa, senza che vengano fatte competizioni tra chi raccoglie di meno e chi raccoglie di più. Se lasciamo che il seminatore semini in noi un buon seme, se lasciamo che la Parola di Dio penetri in noi, e la proteggiamo da uccelli, spine e sole, porteremo il frutto di una vita piena, abbondante, soddisfatta dell’essere coltura di Dio. Portare frutto significa sentirsi in pace con Dio e in armonia con ciò che chiede da noi, quindi vedere la nostra vita santificata, cosa possibile sapendo che è lui a seminare e non noi ad avere meriti per aver dato frutto. Portare frutto significa sentire fortemente la voglia di servire, visto che il frutto è qualcosa che si mangia, che si offre che si mette a disposizione di altri. Portare frutto significa sicuramente appropriarsi della parola del regno, restituirla ad altri, condividerla perché altri la recepiscano, in altri termini evangelizzare. È un espressione che in fondo può concretizzarsi in mille modi diversi, ma tutti strettamente legati a Dio e alla sua volontà.
Alla domanda: Che tipo di terreno sono? Aggiungiamo la domanda: sono pronto a cambiare il terreno che penso di essere?
Tornando all’esempio dell’inizio, e visto che il Signore altrove ci chiede di essere come bambini, chiediamoci: che bambini siamo? Bambini che ascoltano o no?
La prossima settimana analizzeremo tutte quelle parti che abbiamo lasciato da parte, sulla citazione di Isaia e la spiegazione dell’uso delle parabole.