di Roberto Caluri
“Laicità vò cercando ch’è sì rara”
Tra le molte domande che affollano il nostro presente, una si impone in tutta la sua rilevanza: come si organizza una società complessa in cui coesistono gruppi identitari di diversa provenienza, caratterizzati da visioni culturali e religiose spesso in contrasto tra loro? Come è possibile garantire una stabile convivenza civile in presenza di differenti e talora incompatibili modi di pensare e stili di vita che portano con sé un crescendo di tensioni identitarie e sempre maggiori difficoltà di integrazione inter-etnica e inter-religiosa?
Si tratta della sfida della convivenza non facile tra diversi, cui sono esposte le democrazie contemporanee, che sono destinate a diventare, per gli inarrestabili flussi migratori, sempre più multiculturali, multietniche e multireligiose.
La sfida è resa ancora più ardua dal fenomeno oggi diffuso del cosiddetto ‘risveglio identitario’, che si evidenzia nell’emergere di un sempre più marcato bisogno di comunità e nell’affermarsi di una cultura delle ‘appartenenze ristrette’, come mostra il proliferare di localismi, di nazionalismi vecchi e nuovi, e di particolarismi etnico-religiosi.
Non a caso il termine ‘identità’ occupa un posto centrale nel vocabolario nel nostro tempo e non è riconducibile ad un’unica definizione, ma rinvia da una ambivalenza di significati. Identità è una parola polisemica. (Identità linguistico-nazionale, identità religiosa, identità di classe, identità personale) Da un lato, in positivo, indica quel patrimonio di memoria storica e culturale entro cui avviene il riconoscimento di sé ed il soggetto costruisce il proprio modo di rappresentarsi il mondo. Lo ‘sguardo su di sé’ non è mai uno sguardo ‘da nessun luogo’, esterno o estraneo ad una particolare forma di vita, ad una tradizione condivisa, ad un comune orizzonte di riferimenti. Il modo di essere di ciascuno è inevitabilmente condizionato dall’eredità culturale di cui è fatta la nostra realtà di soggetti storicamente situati. Ogni individuo, ogni collettività, per comprendersi, ha bisogno di raccontarsi la propria storia, di identificarsi in un percorso storico e culturale, di riappropriarsi del proprio passato per far interagire la memoria di ciò che è stato con la comprensione del presente e la progettazione del futuro.
Ma c’è anche un modo di intendere l’appartenenza identitaria declinata in senso regressivo e introverso, ben visibile nella tendenza a rinserrarsi nelle ‘piccole patrie’, in comunità omogenee, dove ciascuno incontra come in uno specchio, solo il simile a sé, senza aprirsi a nuove prospettive e senza confrontarsi con altri modi di interpretare la realtà, fino a rivendicare il valore esclusivo della propria tradizione e delle proprie radici. Non la ripresa di una retaggio antico, ma la risposta difensiva di fronte al senso di insicurezza che percorre l’attuale condizione post-moderna, un tempo dai contorni confusi, senza punti fermi, in cui ogni aspetto della realtà storico-sociale non ha più una forma definita e duratura, ma è sotto il segno dell’instabilità e della precarietà, e in cui anche l’orizzonte del futuro ha perso la sua carica di scommessa e di speranza ed appare ormai come rischio e minaccia.
Questo perché, comunque, un’identità perfetta, conclusa, non esiste: l’identità è comunque un mosaico, composto di tessere differenti, e in più la nostra identità è un mosaico difettoso, al quale mancano dei pezzi, non è concluso, sempre imperfetto e migliorabile, da completare. E il laico vive di questa fragile consapevolezza. Ma anche il cristiano, se è credente, si sa posto tra il ‘già e il non ancora’, tra l’evento messianico del Dio Crocifisso e Risorto e asceso al cielo e il Messia (il Cristo) che deve tornare. Come pure l’ebreo credente che sa di essere ‘tra l’Olam hazè e l’Olam haba’, tra questo mondo e il mondo a venire. L’identità non è mai conclusa.
E non stupisce che l’individuo contemporaneo, esposto ad un crescente vuoto di riferimenti e gettato nell’insicurezza globale, scelga la via dell’autodifesa identitaria per trovare, in una realtà in cui tutto è sfuggente, il radicamento forte in una nicchia protettiva di appartenenza, in una comunità-fortezza, per far fonte alle proprie paure e inquietudini, giustificate o meno. Perché quanto più ci si sente insicuri, tanto più cresce la paura dell’altro, del diverso da sé, visto come potenziale nemico e si accentua la tendenza a ritagliarsi isole di similitudine e identità in mezzo al mare della varietà e delle differenze.
Questa ‘voglia di comunità’ viene poi ad intrecciarsi con quell’altro fenomeno tipico del nostro tempo, che è il ‘ritorno del religioso’, spesso nella forma degli integralismi e dei fondamentalismi (o meglio dei confessionalismi, delle religiosità di stato, che si identificano con la totalità della società), che contribuiscono ad alimentare l’irrigidimento identitario, sia perché prospettano l’illusione di una facile accesso a rassicuranti certezze assolute, sia perché costituiscono un fattore di forte identificazione e di appartenenza, con il risultato di rafforzare la logica della separatezza e della contrapposizione.
Ecco che oggi la democrazia, dopo essersi confrontata con i conflitti di interesse di classe, si trova davanti alla sfida di riuscire a comporre i conflitti identitari, che assumono sempre più la forma di un aspro scontro su valori non ‘negoziabili’. Non siamo davanti ad un politeismo dei valori componibili in un irenico pluralismo: i valori diventano indicatori di identità, di appartenenza, non un pantheon ma un pandemonium, incrementando quell’ossessione identitaria che è il vero male, la vera patologia del mondo globalizzato.
Da qui l’urgenza di rispondere alla questione che ho posta all’inizio: come vivere insieme tra diversi? Qual’è il modello migliore entro il quale costruire culturalmente e politicamente la convivenza delle diversità, per far sì che il pluralismo delle differenze non dia origine a conflitti disgreganti, ma diventi occasione di arricchimento per tutti?
Si possono individuare due risposte a questa domanda cruciale: quello universalistico e quello multiculturalistico.
Il modello universalistico è basato sul principio della cittadinanza ‘una e indivisibile’, per la quale i singoli cittadini, indipendentemente dalle proprie appartenenze identitarie e da quali credenze religiose o filosofiche essi abbiano, sono uguali davanti alla legge e sono dotati dei medesimi diritti e doveri. Tale modello prospetta una scena pubblica in cui non entrano in gioco le identità etniche, culturali e religiose, perché in essa gli unici protagonisti sono gli individui, che vi partecipano in qualità di cittadini e non di appartenenti a comunità particolari, così che nessun gruppo identitario possa richiedere riconoscimenti particolari, né pretendere l’attribuzione di speciali diritti collettivi.
Nella modernità si è deciso che tutte le visioni religiose e le concezioni filosofiche dovessero avere tutte lo stesso statuto giuridico di fronte allo Stato perché questo potesse essere in grado di garantire a tutti le stesse libertà, dopo che secoli di storia sanguinosa e sanguinolenta avevano mostrato in modo eloquente che cosa succede a volere che una visione particolare del mondo e dell’uomo (e anche di Dio) debba valere come assoluto per tutti.
Il modello specularmente opposto é quello della ‘differenziazione multiculturale’, sul quale il comunitarismo elabora il progetto di costruzione della ‘città plurale’ in base all’idea secondo cui le norme legislative dovrebbero variare a seconda delle istanze, culturali, religiose ed etniche avanzate dalle varie comunità presenti sul territorio nazionale. Qui i protagonisti non sono più gli individui-cittadini, titolari delle libertà fondamentali, ma le identità collettive, macrosoggetti che rivendicano per sé il riconoscimento pubblico ed esigono sistemi giuridici differenziati e peculiari diritti di gruppo, allo scopo di veder preservata la propria integrità culturale.
Mentre la prospettiva universalista fa proprio il criterio dell’uguale cittadinanza e della pari dignità dei singoli cittadini senza distinzioni di appartenenza, il multiculturalismo all’opposto privilegia la valorizzazione delle diversità culturali e vincola l’assegnazione dei diritti ad una specifica affiliazione comunitaria, prospettando una forma di cittadinanza diversificata.
Ma se prevalesse la prospettiva differenzialista del multiculturalismo a mosaico verrebbe meno l’universalismo della cittadinanza e si creerebbe una società suddivisa in una pluralità di gruppi identitari autoghettizzati, ciascuno retto da norme particolari e contrassegnato da diritti specifici, senza più un sistema unificato di leggi comuni, con la conseguenza di rendere impossibile un progetto condiviso e stabile di vita associata e di incrinare l’assetto istituzionale dello stato democratico. Un pluralismo di universi culturali e religiosi arroccati su se stessi come blocchi monolitici sostanzialmente non comunicanti e portatori di visioni del mondo irriducibili e intraducibili.
Occorre pertanto salvaguardare il principio universalistico della cittadinanza, unica garanzia contro il pericolo di una lacerazione dei legami sociali e che al tempo stesso difende e valorizza il pluralismo delle differenze, che non è solo un fatto senza ritorno nella società plurale post-moderna, ma anche una risorsa irrinunciabile per la democrazia. Occorre differenziare l’universalismo dando espressione pubblica alle varie appartenenze e unificando le diversità in un orizzonte normativo comune, bloccando le derive particolaristiche e consentire lo stare insieme nella distinzione, sul quale si fonda la ‘polis’ democratica. Polis democratica in cui la condivisione di leggi uguali per tutti non avviene a prezzo delle differenze, ma scaturisce dal loro riconoscimento reciproco. Senza questo legame dialettico si avrebbe o un’unità che annulla le diversità, oppure si produrrebbe l’assolutizzazione delle differenze, ciascuna isolate e separata da ogni altra, una sorta di tribalismo identitario.
Occorre quindi costruire una ‘solidarietà tra estranei’, che intendono rimanere identitariamente diversi, pur riconoscendosi in un quadro normativo concordato di leggi uguali per tutti, e con l’intenzione di condividere la comune condizione di cittadinanza, che è tutt’uno con l’identità pubblica, unica forma di appartenenza che supera senza negarle le appartenenze particolari. In altre parole, lo stato democratico impone a tutti i cittadini il dovere di uniformarsi alle regole politiche e giuridiche su cui si regge il convivere civile, ma allo stesso tempo garantisce a ciascuno il diritto di continuare nel proprio stile di vita, legato ad un contesto comunitario o meno, in modo da salvaguardare il diritto alla differenza, senza che si tramuti in una ‘differenza di diritti’.
In questa prospettiva diviene evidente l’importanza di mantenere ben fermo il criterio che riconosce la titolarità dei diritti esclusivamente agli individui- cittadini e non alle comunità identitarie, siano esse etniche, di fede o di identità di classe. Si tornerebbe in questo caso, come molti auspicano, ad un sistema feudale, in cui si imporrebbe a chi ne fa parte la sottomissione al gruppo, senza libertà di dissenso, di fuoriuscita dal gruppo, di apprendere da tradizioni diverse o di conversione o di camminare verso altri lidi.
Diviene evidente anche che la prima regola che regge una ‘democrazia deliberativa’ è che tutti i gruppi abbiano la possibilità di esprimersi nella ‘sfera pubblica’ su un piano di parità e senza una posizione di privilegi o prestigio. Di conseguenza nessuna identità religiosa o non religiosa può presentarsi nella sfera pubblica, come se fosse depositaria di verità indiscutibile e incontestabili o auto-evidenti, a cui i non aderenti debbano comunque accondiscendere anche se non convinti, per il bene della collettività: questa è una pretesa non compatibile con la democrazia. Né alcuna religione o chiesa può arrogarsi il privilegio di veder tradotta in legge universale la propria visione particolare e di imporre il proprio sistema di valori anche a coloro che non vi si riconoscono. A questo lo stato democratico, se è democratico, deve mettere un HALT. Ciò che tiene insieme una società democratica infatti, non è un sistema di valoro identitari di una sola parte (religiosa, etnica o di classe), di una sola tradizione, ma è l’insieme dei valori fondanti della democrazia stessa, i suoi principi e le sue regole. ‘Stato di diritto’ e non ‘ragion di stato’ o stato etico. Pertanto gli unici valori ‘non negoziabili’ sono quelli che stanno al fondamento della democrazia stessa, perché se fossero messi in dubbio, anche la democrazia stessa sarebbe in pericolo.
Tutti gli altri valori, che fanno capo a diverse visioni del mondo, religiose o non religiose, possono non essere negoziabili in rapporto alle scelte individuali, ma devono essere necessariamente negoziati nella sfera politica pubblica pluralista, attraverso la pratica della mediazione tra posizioni divergenti per giungere a decisioni legislative condivise.
Questo ci conduce ad un punto ricorrente nel pensiero di Ratzinger. Il processo della modernità post-illuministica è letto non come emancipazione dalle pretese assolutistiche che il cristianesimo delle chiese di Stato ha esercitato, ma come ‘espulsione’ di Dio dal mondo, per negargli ogni spazio e relegarlo nel privato. Così nel discorso di Subiaco 2005, il mancato inserimento di un riferimento alle ‘radici cristiane’ nel preambolo della Costituzione europea viene valutato in questi termini:
“L’accantonamento delle radici cristiane non si rivela espressione di una diversa tolleranza che rispetta tutte le culture allo stesso modo, non volendone privilegiare alcuna, bensì come l’assolutizzazione di un pensare e di un vivere che si contrappongono, fra l’altro, alle altre culture dell’umanità …. il rifiuto del riferimento a Dio non è espressione di una tolleranza che vuole proteggere le religioni non teistiche e la dignità degli atei e degli agnostici, ma piuttosto espressione di una coscienza che vorrebbe vedere Dio cancellato definitivamente dalla vita pubblica dell’umanità e accantonato nell’ambito soggettivo di residue culture del passato.
Il relativismo, che costituisce il punto di partenza di tutto questo, diventa così un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della ragione, ed in diritto di considerare tutto il resto soltanto come uno stadio dell’umanità in fondo superato e che può essere adeguatamente relativizzato. In realtà ciò significa che abbiamo bisogno di radici per sopravvivere e che non dobbiamo perdere di vista Dio, se vogliamo che la dignità umana non perisca”.
Quello che sorprende (o forse no) è che la critica di Ratzinger non sfocia però in un appello alla fede in Dio attraverso la libera e convinta adesione dei singoli, ma nella richiesta che il riferimento a Dio sia assunto come normativo in campo etico (e quindi politico) anche e proprio in assenza di fede:
“Dovremmo capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita ‘veluti si Deus daretur’, come se Dio ci fosse. … Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno”.
E’ un chiaro richiamo alla “fondazione sacrale dell’elemento politico” (per usare le sue parole) anziché un appello alla fede.
Mi è venuto a mente quello che scriveva Alexandre Vinet nei suoi ‘Saggi’ del 1842:
“Dateci delle convinzioni religiose!”
Il secolo è spinto verso la fede da un vago spavento e dalla sensazione di un pericolo pubblico più che da un serio bisogno dell’anima.
Gli increduli portano il lutto per la credenze che non hanno; i meno religiosi predicano la religione. Il vuoto è così grande, il bisogno così imperioso che si scolpiscono religioni come gli idolatri scolpiscono i loro idoli
Questo tema ricorre continuamente nella dottrina di Ratzinger. E’ noto come egli sostenga che lo Stato moderno collassi senza un riferimento metafisico. Il problema in questo ragionamento è che egli è convinto che esista un’unica garanzia per il corretto uso della ragione che la preservi dal divenire ‘dogmatismo relativista’, un’unica garanzia per la retta comprensione e attuazione dei diritti umani, per lo sviluppo di una ‘sana laicità’: il solido fondamento costituito dalla sintesi di ragione, Rivelazione e natura offerta dalla chiesa cattolico-romana, con la pretesa che si riconosca l’esistenza un fondamento di verità valido e vincolante per tutti, e che i valori che la chiesa di Roma avrebbe sempre sostenuto, a partire dalla sua sintesi di ragione, Rivelazione e natura, sono fondamenti dell’umano per tutti.
Il problema è che altri ritengono che questa soluzione si traduca per molti in un essere posti sotto tutela, come minori, mentre l’anelito della modernità è stato ed è quello di veder tutelati i propri diritti senza che nessuno abbia il diritto di mettere sotto tutela nessuno.
Mentre la laicità cerca la costruzione di uno spazio pubblico in cui nessuna fede o ideologia filosofico-politica sia in alcun modo sovraordinata alle altre, per consentire a tutti l’uguale esercizio di tutte le libertà, Ratzinger propone e rivendica l’assunzione fondativa esattamente di uno dei punti di vista particolari presenti nell’agorà. Questo per tutelare l’umano nella sua pienezza.
E non sfugge che la guida universale che Ratzinger intende dare ai diritti umani, la legge naturale ‘scritta dal Creatore nella coscienza umana’, è essa stessa particolare: questa visione della legge naturale è una delle tesi di una particolare confessione cristiana. Di nuovo dunque, la rivendicazione di oggettiva universalità con la pretesa che sia attribuito, per tutti, valore assoluto e sovraordinato ad una delle varie visioni del mondo che convivono nell’agorà.
Nella chiesa cattolica convivono e lottano fra loro diversi tipi di religiosità che, sotto la tradizionale e non rinunciabile dichiarazione di appartenenza ad un’unica chiesa, sono in realtà espressione di opposte visioni religiose e politiche del mondo. Una di queste ritiene che la chiesa cattolica debba essere necessariamente una istituzione forte che domini la vita pubblica, civile, sociale, politica ed economica. Per un’altra invece, il cristianesimo non deve diffondersi con gli strumenti del potere, ma esprimersi nella debolezza, nella povertà di mezzi, nella giustizia sociale, assumendo come esempio la pratica di vita di Gesù. Spesso queste visioni opposte convivono, anche nella stessa persona, senza che se percepisca la contraddizione. Gesù rimane un modello normativo, ma si pensa che la chiesa debba essere forte politicamente, economicamente ed influente nella vita pubblica.
Bergoglio ha messo decisamente in primo piano la visione del cristianesimo che predilige fratellanza, accoglienza, solidarietà e misericordia. Ma in lui anche l’altra visone, quella della forza, continua ad essere presente. Cosicché è velleitario sperare che egli contrasti o azzeri il potere politico ed economico della chiesa cattolica e riduca la sua forte invasività pubblica.
Venendo all’oggi, l’humus culturale di Bergoglio, la cosiddetta ‘hispanidad’, sostiene che l’America latina ha la sue particolarità storiche per cui ha costruito i propri valori spirituali e politici e ideologici e economici, attorno ad una matrice cattolica nel suo fondo sostanzialmente impermeabile e contrari ai valori della modernità liberale. Bergoglio rivendica tutta questa tradizione di antiliberalismo e anticapitalismo. Insiste molto sul concetto che l’America latina deve mantenere viva questa sua particolarità. Un’identità storica che non riguarda solo lui, ma tutta la chiesa argentina in rapporto al peronismo e tutta la chiesa latinoamericana nei suoi legami con i movimenti populisti (di destra come di sinistra) che antepongono la collettività all’individuo o alla persona . E’ una tradizione visceralmente, religiosamente, antiliberale anche nel caso di atei devoti o atei bigotti, secondo la quale il capitalismo e il liberalismo spezzano quell’unità organica della nazione (lo stato etico hegeliano) che invece la cattolicità protegge in quanto religione di stato.
Con questi ideali, tra l’altro, non ci può sviluppare. Quando c’è la crisi di un settore economico loro dicono ‘viene prima il Vangelo’, quindi facciamo deficit e debito. E il debito fa sacrificare le generazioni future al mantenimento dello status quo della generazione presente. E più che altro delle oligarchie che la dominano. Che poi è quello che l’Argentina ha sempre fatto.
E’ una ideologia che sembra proprio voler produrre i poveri, gli esclusi, perché ha bisogno dei poveri per autoprodursi, e che non tiene conto del fatto che l’America latina di capitalismo ne ha avuto storicamente molto poco, e quel poco spesso senza liberalismo.
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Una delle caratteristiche della cosiddetta ‘epoca della secolarizzazione’ è la diffusione su scala mondiale di una particolare forma di religiosità messianica, di ‘messianismo politico’ il cui scopo è di sostituire ‘la trascendenza con l’immanenza’ più totale e il ‘paradiso da attendere’ con la società perfetta.
L’idea di fondo si può riassumere nella volontà di realizzare il destino dell’uomo attraverso la prassi rivoluzionaria. Il male e la sofferenza non si possono più tollerare e si arriva alla conclusione che sia necessaria un’azione di forza, una rivoluzione, appunto, che possa trasformare questo mondo imperfetto in quel ‘paradiso’ che nessuno ha più la pazienza di attendere. Della serie: ‘Purificare il mondo e ricrearlo’, ‘distruggere tutto per ricreare tutto’, ‘rovesciare il mondo esistente’.
L’assunto fondamentale è la sostituzione di Dio da parte dell’uomo nei ‘compiti’ che il Dio cristiano non ha saputo assolvere. Si tratta di compiere quella ‘transustanziazione della storia’, trasformazione della storia che non sarebbe riuscita alla chiesa imperiale costantiniana, di realizzare in terra il Regno di Dio ma con mezzi umani, visto che il Dio della tradizione giudaico-cristiana non ha saputo realizzare le sue promesse, mantenendo le medesime prospettive di filosofia e teologia della storia. Venendo a mancare la fede nella trascendenza non è rimasto altro che rompere gli indugi e impegnarsi attivamente e in modo liberatorio alla realizzazione di un mondo perfetto su questa terra. Secondo la celebre definizione di Carl Schmitt: “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”
La parte più drammatica di queste religiosità messianiche è l’esperienza del potere totalitario, che comunque non nasce nella modernità, ma che è compiutamente presente fin dalle origini della chiesa costantiniana, la chiesa imperiale, ma anche della paganità precedente (il cosiddetto ‘assolutismo asiatico’). Anche quando non sembra, questi progetti sono orientati in modo irreversibile verso nuove e sempre più gravi forme di sopraffazione dell’uomo sull’uomo e non hanno mai raggiunto i risultati attesi: i mali che si intendeva estirpare sono stati sostituiti da mali peggiori. Le guerre e il dominio totalitario sono stati gli unici esiti accertati del folle e diabolico progetto degli uomini che, dopo essersi sostituiti a Dio, intendevano modificare il corso della storia, mentre ne sono rimasti sopraffatti.
Per Bergoglio la povertà è una forza rivoluzionaria in grado di trasformare il mondo; un punto di partenza per costruire il futuro. Si tratta di una ‘teologia politica’ che prevede l’inclusione degli esclusi, degli emarginati, dei poveri, per poi, partendo dagli esclusi una volta inclusi, dirigere la trasformazione del mondo, utilizzare i loro bisogni come spinta per produrre la trasformazione ‘messianica e profetica’ della realtà, cioè ancora una sorta di ‘transustanziazione’ della storia, la realizzazione in terra del Regno di Dio con mezzi umani. Proponendo la prospettiva cattolica come autorità morale per tutti. E sempre intendendo il capitalismo, la scienza e il liberalismo democratico come il Male assoluto e lo statalismo corporativo (vetero e neo medievale) come il Bene che poggia sul fondamento indiscutibile e assoluto del sacro e della ‘legge naturale’.
Del resto Mario Tronti, dopo aver riconosciuto che “il movimento operaio è stato protagonista del grandioso tentativo teorico fallito di mettere in atto un’analisi scientifica dentro un orizzonte escatologico”, sostiene oggi che “a questo punto è possibile immaginare il progetto di costruzione di un’autorità collettiva autoconsapevole che faccia perno su una fede mondana”, “su un terreno di critica della secolarizzazione e di critica del concetto stesso di laicità”. Ovvero, la sinistra stesa come un tappeto rosso in piazza San Pietro.
Ma la varietà e pluralità dei convincimenti etici non è una disgrazia pubblica per la democrazia, è anzi un suo valore costitutivo da salvaguardare, perché la democrazia non ha niente a che fare con una comunità organica e omogenea, stile stato etico, improntato da un unico stile di vita ‘buono e omogeneo’, come vorrebbero i comunitarismi e i fondamentalismi.
Sono quindi democraticamente ‘giuste’ quelle leggi che non adottano certezze rigide contrapponendole ad altre certezze e che non obbligano a determinare le scelte in nome di un unico sistema di credenze e di valori, ma assumono un atteggiamento flessibile verso le diversità, per permettere a ciascuno di seguire ciò che è dettato dalla propria coscienza e dalla propria concezione etica; e per impedire che i più forti si sentano autorizzati a imporre il proprio esclusivo punto di vista sulle cose della vita e trasformarlo con la forza della legge nel punto di vista di tutti, in piena falsa-coscienza.
Viene quindi in primo piano il criterio tutto laico della priorità del “giusto” sul “bene”: il ‘Giusto’ attiene all’area della condivisione politica su leggi che non privilegiano e non impongono una particolare concezione a scapito delle altre. Il ‘Bene’ invece rimanda a quella pluralità di convinzioni e di credenze entro la quali ciascuno può operare la propria scelta, con l’unico limite che non siano lesivi della libertà e dei diritti di altri. Ed è questo il criterio che permette di dirimere il conflitto tra valori che nella società multiculturale si origina dalla compresenza di molteplici e dissonanti prospettive morali e religiose. Tenendo magari di conto del fatto che già Platone diceva: “il Bene è aldilà dell’Essere”, cioè della Ragione.
In conclusione lo stato democratico è uno stato rigorosamente neutrale, che non fa propria nessuna particolare idea del ‘bene’ togliendo legittimità ad altre visoni morali. Ma la sua neutralità non è puramente passiva, diventa neutralità attiva perché lo stato laico e democratico, assumendo il pluralismo come valore, diviene il presidio del pluralismo perché dà espressione pubblica e spazio di ascolto alle varie appartenenze e promuove il confronto tra fedi, esperienze e convinzioni diverse. Ed è neutrale perché garantisce come arbitro imparziale, che tutte le concezioni possano partecipare al dibattito in libera competizione senza privilegi o prevaricazioni e pretenda di elevare il proprio modello etico a norma universale.