Chi non lavora non mangia

2 Epistola di Paolo ai Tessalonicesi 3, 6-18

6 Fratelli, vi ordiniamo nel nome del nostro Signore Gesù Cristo che vi ritiriate da ogni fratello che si comporta disordinatamente e non secondo l’insegnamento che avete ricevuto da noi. 7 Infatti voi stessi sapete come ci dovete imitare: perché non ci siamo comportati disordinatamente tra di voi; 8 né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno, ma con fatica e con pena abbiamo lavorato notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi. 9 Non che non ne avessimo il diritto, ma abbiamo voluto darvi noi stessi come esempio, perché ci imitaste. 10 Infatti, quando eravamo con voi, vi comandavamo questo: che se qualcuno non vuole lavorare, neppure deve mangiare. 11 Difatti sentiamo che alcuni tra di voi si comportano disordinatamente, non lavorando affatto, ma affaccendandosi in cose futili. 12 Ordiniamo a quei tali e li esortiamo, nel Signore Gesù Cristo, a mangiare il proprio pane, lavorando tranquillamente.


13 Quanto a voi, fratelli, non vi stancate di fare il bene. 14 E se qualcuno non ubbidisce a ciò che diciamo in questa lettera, notatelo, e non abbiate relazione con lui, affinché si vergogni. 15 Però non consideratelo un nemico, ma ammonitelo come un fratello.

1. Il principio di riprensione: delicato ma necessario.

In questa fine capitolo Paolo parla di un problema che riguarda la vita comunitaria, e che è un problema delicato. Cosa fare quando qualcuno si comporta in modo chiaramente sbagliato? Paolo parla genericamente di persone che si comportano «disordinatamente», (6,7, 11), e in seguito precisa in cosa consista questa insubordinazione. Dà delle indicazioni sobrie ma efficaci sul comportamento: innanzi tutto c’è una presa di distanza. «Ritiratevi, non abbiate relazione». C’è anche un’attenzione portata sulla persona: «Notatelo». Infine un’ammonizione: non consideratelo un nemico ma trattatelo come un fratello.

Una chiesa sana è una chiesa che ha cura di se stessa. È una chiesa in cui i comportamenti non sono arbitrari e improntati ad un principio di libertà assoluta, ma plasmati da un credo comune, da un sentire comune, da un‘identità comune. Se si fa parte della stessa chiesa quindi, non ci si preoccupa dunque solo del proprio comportamento, ma si cammina insieme, esortandosi e correggendosi. Anche perché l’amore senza correzione non è un vero amore. Ora, credo che Paolo avesse ben chiaro che un simile principio va usato correttamente, altrimenti degenera producendo grosse storture. È facile infatti che in un gruppo si passi il tempo ad osservarsi, per arrivare a giudicarsi, o che i singoli pensino più ad osservare gli altri che se stessi, e questa non è la chiesa che Cristo vuole. Tuttavia Cristo non vuole neppure una chiesa in cui regna l’indifferenza gli uni rispetto agli altri e in cui chi ruba, è violento, egoista o parassita, continua ad esserlo indisturbato come se la chiesa fosse un luogo in cui si transita in modo indolore con l’unico scopo di cantare o mangiare insieme. Non è affatto un male che chi si comporta così si «vergogni», provi disagio per le sue azioni! Se non si vergognasse significherebbe che lo Spirito Santo non lavorerebbe in quella persona!

Paolo sa bene che una vera chiesa deve imparare anche a riprendersi, ed ecco perché tanta sobrietà in quelle parole. Prendere delle distanze, sapendo ammonire come dei fratelli. Non significa smettere di amare, e non significa insultare, né infangare il fratello che sbaglia, ma semplicemente riprendere. Quanto sarebbe meglio riprendere apertamente anziché sparlare o portare dentro del rancore... Indubbiamente anche questa riprensione si impara, è da farsi con delicatezza, con la convinzione che ci sia amore per la persona e con la preghiera. Nascondersi dietro il timore del legalismo non ci serve, mentre è auspicabile che la chiesa sia il luogo della nostra santificazione.

Concludiamo questo primo punto con una domanda. Se pensate a errori che avete fatto in passato, chi vi ha aiutato di più? Chi li ha minimizzati o chi ve li ha fatti notare, dandovi però un aiuto per correggerli?

2. Chi non lavora non mangia

Da quanto possiamo capire le persone in questione, che vengono definite disordinate, sono persone che non vogliono lavorare. Forse hanno pensato che vista l’imminenza del ritorno di Cristo sia inutile lavorare, oppure presi da eccessi di spiritualismo, hanno considerato che il lavoro sia qualcosa di eccessivamente materiale da fuggire, e con cui non sporcarsi le mani. Ho fatto un rapido giro su internet e sono rimasto sorpreso dal gran numero di siti che ho trovato che danno consigli su come vivere senza lavorare, che vanno dalle forme più spiritualiste (liberarsi dalla schiavitù del lavoro, che alla fine propongono semplicemente di lavorare di meno, senza fare del lavoro un fine in sé), a quelle più capitaliste (vivere di trading on line, quindi vivere di rendita). È curioso pensare come nella storia molte persone abbiano effettivamente vissuto senza lavorare: si pensi alla nobiltà che ha vissuto di rendita fino alla Rivoluzione Francese, si pensi a persone che hanno ereditato grandi proprietà e che hanno potuto vivere affittandole. Ma è anche curioso pensare che oggi spesso il problema è esattamente l’opposto: ci sono persone che vorrebbero lavorare e che non possono perché non c’è lavoro…

Che si tratti della scarsa volontà di lavorare oppure della crisi del lavoro che viviamo oggi, credo sia molto bello leggere nella Bibbia un principio di grande concretezza che dà valore al lavoro materiale. Se è verissimo che la salvezza è per sola grazia e che l’uomo per la sua salvezza non può fare alcun lavoro, non così sul piano della sopravvivenza del corpo: il corpo che molta filosofia greca disprezzava (platonismo) e che anche l’Antico Testamento prima di parlare di redenzione vede come una punizione divina (Genesi 2), viene qui nobilitato e riportato al suo senso originale. Ricordiamoci che l’uomo è stato messo nel giardino dell’Eden per coltivarlo e curarlo. In un certo senso ogni lavoro che facciamo rientra nel gran contenitore del curare il grande giardino del mondo, che dopo la creazione e la caduta è nella fase della redenzione. Se Paolo dice con forza che chi non lavora non mangia, e propone il suo esempio di missionario-lavoratore come modello da seguire, è proprio perché sa che il lavoro non è un male minore, non è più una condanna, non è un’appendice di sofferenza in attesa della redenzione, ma quell’attività gioiosa del coltivare il giardino che corrisponde al progetto creazionale delle origini.

Pensiamo quindi al nostro lavoro, se ne abbiamo uno. Come lo viviamo? È il fine della nostra vita? Oppure è solo fonte di frustrazione? Cerchiamo di capirlo come l’attività che Dio mi chiede di fare per la sua gloria. E se non ne abbiamo, continuiamo a pregare nella fiducia che stiamo chiedendo qualcosa di giusto e che Dio ascolterà il nostro grido di disoccupati. Esempio di Kekeli, Peggy.

3. L’esempio di Paolo e dei suoi collaboratori

Forse tanti di noi si fanno l’idea che Paolo fosse un missionario a pieno tempo e che dedicasse tutto il tempo che aveva a evangelizzare, insegnare e curare chiese. In realtà vediamo che in più contesti lavora, e qui lo dice esplicitamente. Avrebbe potuto farsi mantenere dai Tessalonicesi ma rinuncia per non essere di peso. Questo passo mi colpisce perché mi ricorda che una volta assodato il principio che chi non lavora non mangia, non esiste un principio che chi lavora fa meno di altri in chiesa, che chi lavora non evangelizza, non è pastore, non insegna, non aiuta, non organizza azioni per i poveri ecc. Se il lavoro è un dovere, una necessità ed anche una gioia, questo non è mai una scusa. E se il nostro lavoro sta diventando una scusa, quindi un idolo, quindi una dipendenza, stiamo attenti! Paolo non è stato «disordinato» non solo nel fare ciò che non gli era chiesto, cioè lavorare per persone che stava servendo, ma anche nel fare quello che gli era chiesto: curare spiritualmente queste persone. Credo che missionari a pieno tempo, pastori, docenti di facoltà teologiche o istituti biblici siano necessari e siano una benedizione. Credo altresì che chi non lavora «a pieno tempo» per il Signore, non abbia scuse per non fare come faceva Paolo, che lavorava notte e giorno, ma affiancava al lavoro la preoccupazione per il regno di Dio. Qui tutti sono esortati a lavorare; ma implicitamente Paolo con il suo esempio segnala che è possibile lavorare e curare. Essendo questa la condizione in cui si trovano la maggior parte delle persone presenti in una chiesa, credo che questo esempio abbia molto da dirci, richiamandoci a fissare delle priorità e a lavorare per mangiare e per vivere e non a vivere per lavorare.

Benedizione e saluti
2Co 13:11-13
16 Il Signore della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni maniera. Il Signore sia con tutti voi.
17 Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo; questo serve di segno in ogni mia lettera; è così che scrivo.
18 La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi.