Cosa impariamo dai bambini?

Matteo 18, 1-1. Cosa impariamo dai bambini?
1 In quel momento, i discepoli si avvicinarono a Gesù, dicendo: «Chi è dunque il più grande nel regno dei cieli?» 2 Ed egli, chiamato a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: 3 «In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Chi pertanto si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei cieli. 5 E chiunque riceve un bambino come questo nel nome mio, riceve me. 6 Ma chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato in fondo al mare.
7 Guai al mondo a causa degli scandali! perché è necessario che avvengano degli scandali; ma guai all’uomo per cui lo scandalo avviene! 8 Se la tua mano o il tuo piede ti fanno cadere in peccato, tagliali e gettali via da te; meglio è per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. 9 Se il tuo occhio ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via da te; meglio è per te entrare nella vita con un occhio solo, che aver due occhi ed essere gettato nella geenna del fuoco.
10 Guardatevi dal disprezzare uno di questi piccoli; perché vi dico che gli angeli loro, nei cieli, vedono continuamente la faccia del Padre mio che è nei cieli. 11 [Poiché il Figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto.]
12 Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e una di queste si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti per andare in cerca di quella smarrita? 13 E se gli riesce di ritrovarla, in verità vi dico che egli si rallegra più per questa che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così il Padre vostro che è nei cieli vuole che neppure uno di questi piccoli perisca.
Nel corso della storia ci sono una serie di cose che cambiano. Cambiano gli atteggiamenti, le mode, i diritti, le cose a cui si dà importanza, le cose per cui ci si scandalizza e quelle per cui ci si infervora. Oggi i bambini sono qualcosa di assolutamente centrale. Facciamo tantissimo per loro, li mettiamo al centro anche in modo eccessivo e spesso controproducente, il mercato crea un vero e proprio business attorno al bambino e chi lavora nella scuola è continuamente soggetto a prediche sulla necessità di mettere il bambino al centro, sui diritti del bambino e simili. Questo può raggiungere eccessi ma è una normale reazione ad una cultura che marginalizzava i bambini o non dava loro molta importanza, se non quella di verderli come futuri uomini e donne, quindi adulti nel modo più veloce e garantito possibile. Il vangelo parla di bambini a più riprese e ovviamente fa delle considerazioni che tengono conto della visione che si aveva al tempo dei bambini: essere pregiati in quanto dono di Dio, segno della continuità di una famiglia o di una stirpe, ma anche esseri privi di importanza e necessariamente sottomessi agli adulti.
Qualche domenica fa abbiamo ascoltato un messaggio sul vangelo di Marco 9, che trattava di un problema simile: Il regno dei cieli appartiene a chi è come un bambino. Si sono quindi ricordate diverse caratteristiche del bambino: consapevolezza dei suoi limiti, consapevolezza di essere peccatore, mancanza di ipocrisia, fiducia negli adulti… Il tema trattato in questo capitolo è leggermente diverso sebbene prenda spunto dallo stesso argomento, ma si sviluppa in un modo originale. Che cosa impariamo dai bambini? Siano essi nostri figli, nipoti, figli di amici, figli presenti nella famiglia spirituale della chiesa, cosa hanno da insegnarci con la loro semplice presenza? Piuttosto che vivere mettendo il bambino al centro, viziandolo e facendolo diventare un piccolo dittatore, potremmo contemplare i nostri figli per capire quanto abbiamo da imparare da loro, per la nostra vita spirituale e comunitaria. Comincia infatti qui nel capitolo 18 il quarto dei lunghi discorsi di Gesù che scandiscono il vangelo di Matteo che riguarda proprio le relazioni tra credenti, all’interno della comunità cristiana.

  1. Il più grande è un bambino senza valore
    La riflessione sui bambini nasce da una domanda posta dai discepoli che non va fraintesa. Qui i discepoli non si stanno ponendo la domanda di chi sia il più grande di loro, ma fa riferimento a quanto appena detto da Gesù che ha rivendicato di essere figlio di Dio e quindi ben più grande dei re della terra. Nasce dunque la domanda su chi sia, in cielo, il più grande, il più importante, su come vengano ristrutturate le gerarchi di potere in cielo: i re saranno ancora importanti? I loro sudditi come si rapporteranno loro? La risposta di Gesù rovescia come sempre tutte le categorie umane: il più grande è colui che accetta di essere privo di valore come un bambino. Essere bambini non significa qui avere alcune caratteristiche quali spontaneità, fiducia o sincerità, ma è la posizione sociale del bambino che conta: è uno che conta poco! Mettere da parte le proprie pretese di onorevolezza, grandezza o gloria significa essere privi di valore davanti a Dio e diventare effettivamente dei piccoli. Il più grande in cielo è allora chi ha accettato di essere piccolo.
    Iniziamo quindi il nostro esercizio di contemplazione dei nostri figli. Guardiamo sempre i nostri figli con tenerezza e affetto. Se però pensiamo ai nostri figli che si mettono a dare opinioni, che pensano di rifare il mondo, o che hanno la presunzione di dire come questo dovrebbe funzionare ci mettiamo a ridere… Siamo pronti a sentire che di noi si ride come dei bambini, perché non abbiamo quel valore che vorremmo? Siamo pronti a diventare dei piccoli? Questo non significa ostentare una falsa modestia, o in un ascetismo che ci spinge ad automortificarci, ma semplicemente significa essere come Gesù che ha accettato di non valere pur essendo il re dei re. Che ha accettato la croce e la corona di spine pur essendo re.
    Per le relazioni, Significa però anche qualcosa di ancora più difficile. Significa ricevere un bambino che crede in Gesù. A chi si sta riferendo qui? Ai bambini? Attenzione, il mondo antico non prendeva i bambini in considerazione in quanto li riteneva incapaci e privi di valore per cose cruciali, ma li accudiva e li riceveva. Nessuno avrebbe rifiutato un bambino o lo avrebbe cacciato a calci. Il bambino di cui si parla qui non è quindi più il bambino, ma colui che si è fatto bambino credendo in Gesù, e lo riceve nel nome di Gesù. Non si possono fare grosse distinzioni tra persone nel momento in cui queste rivendicano di appartenere a Gesù. Non si possono ricevere i belli, simpatici, ricchi e pieni di talenti e rifiutare i poveri, brutti, antipatici e pieni di problemi. Se si sono fatti bambini vanno ricevuti nel nome di Gesù. Questo è un insegnamento forte per le chiese, che preferirebbero crescere con persone piene di talenti, di doni spirituali, magari anche di cerca condizione economica e non carichi di problemi. I veri grandi ricevono i veri piccoli e nel nome di Gesù si incontrano cancellando le categorie di grandezza e piccolezza puramente umane.
  2. Scandalizzare. La fragilità dei credenti
    Secondo grande insegnamento che scaturisce dall’essere come un bambino riguarda la fragilità. Ci piacerebbe pensare alla chiesa come una famiglia solida, dalle porte invincibili che l’Ades non potrà vincere, fondata su un solido fondamento, incrollabile ed eterno. Ci piace pensare alle persone che sono nella chiesa come pietre, quindi come persone solide, dalla fede incrollabile e garante di continuità. Ci piace molto tutto ciò, eppure la chiesa è comporta di persone fragili, volubili, influenzabili e soggette a vacillare in tanti modi. I piccoli che credono in Gesù sono tali proprio perché facilmente trovano pietre d’inciampo, che ostacolano il loro cammino e che impediscono loro di credere in modo sereno. C’è dunque una grande responsabilità nel vivere in chiesa. La vera chiesa non è un posto dove si viene la domenica, si passa qualche ora ad ascoltare e si va via. Questa è al massimo una degenerazione della chiesa. La vera chiesa è una famiglia, ma nella famiglia ci si avvicina, ci si conosce e facilmente ci si urta. Purtroppo spesso ci si scandalizza. Vuoi per mancanza di attenzione reciproca, vuoi per errori umani, per pretese di potere, per cattiva gestione, per ossessione su dottrine marginali e poco importanti. Quando si chiede alla gente perché non crede in Dio generalmente il discorso ripiega sui comportamenti di chi parla di Dio, sui preti pedofili, le gerarchie intransigenti e verticistiche, gli scandali legati al denaro e via dicendo.
    La fase due del nostro esercizio consiste nell’osservare un bambino e pensare a quanto ci spiacerebbe scandalizzarlo. In genere se abbiamo un po’ di ritegno evitiamo di adirarci in modo eccessivo davanti ai bambini. Coloro che hanno l’abitudine – sbagliata – di dire parolacce, cercano di trattenersi, ancora di più con le bestemmie. Evitiamo di esporli a scene di violenza o a situazioni sconvenienti, e riteniamo disumani coloro che espongono i bambini a simili cose. Questo perché ci terrorizza il poterli rovinare, scioccare, traumatizzare. Pensare a questo ci fa quindi pensare alla responsabilità che da credenti, e ancora di più da guide, da persone con qualche compito, qualche responsabilità abbiamo verso “i piccoli che credono in me”… Nell’accoglienza di chi entra per la prima volta o nel curare chi è meno presente ci dobbiamo rendere conto della responsabilità pastorale comunitaria che tutti abbiamo nei confronti di tutti. Perché in fondo siamo dei piccoli che credono in lui assieme ad altri piccoli che credono in lui. Le immagini evocate da Gesù per eccessive che possano sembrare, (macine al collo, mani mozzate, occhi cavati) sono comunque immagini che indicano la radicalità dell’attenzione da avere nei confronti di fratelli e sorelle di una comunità. Se la tua arroganza ti fa peccare, tagliala! Se il tuo egoismo ti fa peccare, taglialo! Se il tuo dire male degli altri ti fa peccare taglialo… Ne abbiamo altri? Sicuramente! Tagliamoli e buttiamoli via, per evitare quell’inferno che accoglie chi vuole essere grande secondo i criteri del mondo. , piuttosto che scandalizzare.
  3. I piccoli hanno valore agli occhi Dio
    Tutto ciò ha una motivazione: ogni persone che diventa piccola nel nome di Gesù, cioè che si converte, che entra in chiesa ha un grande valore agli occhi di Dio. L’idea degli angeli che appartengono ai bambini e che guardano il padre ha dato vita a singolari credenze sugli angeli custodi che non si capisce bene cosa e chi siano. La spiegazione è probabilmente più semplice, perché gli angeli – come ad esempio quelli delle chiese dell’apocalisse – sono dei rappresentanti davanti a Dio. L’idea che questo passo vuole trasmetterci è che i bambini considerati socialmente privi di valore, hanno in realtà dei rappresentanti davanti a Dio che lo contemplano e che permettono ai bambini di rivolgersi direttamente a Dio. Ugualmente le pecore hanno un valore incredibile per un pastore, che è pronto a lasciarne 99 per cercarne una smarrita, quindi il pastore non fa valutazioni quantitative su quante pecore può perdere e quante ne guadagna, è semplicemente innamorato delle sue pecore e tutto darebbe pur di salvarle da qualsiasi situazione. Angeli e pecore ci ripetono un grandissimo messaggio: abbiamo un grande valore agli occhi di Dio. Questo valore lo scopriamo quando ci spogliamo di quei valori di cui vorremmo farci grandi agli occhi del mondo. Prestanza, successo, bellezza, intelligenza, forza fisica, popolarità, prestigio, stima e buona fama, che tutti ricerchiamo, non sono queste le cose che Dio ci richiede. Dobbiamo essere pronti a metterle ai piedi della croce, e a considerarci bambinetti che non hanno tutte queste qualità e accettano di guardarsi come privi di quei valori davanti a Dio. Ma quando abbiamo accettato il nome di Gesù, quando vogliamo vivere nel nome di Gesù ecco che scopriamo di avere un valore enorme davanti a lui. La settimana scorsa abbiamo ascoltato la testimonianza di una persona che ci ha raccontato di avere sofferto di disturbi alimentari, generati da una percezione sbagliata del proprio valore. Dio ci accetta come accetta dei bambini che vengono a lui senza rivendicare diritti, senza offrire pregi, senza capacità e virtù morali, ma solo la loro mancanza di valore. La terza fase del nostro esercizio consiste nel contemplare i bambini e pensare quanto sono per noi preziosi. Dobbiamo pensare di essere simili agli occhi di Dio. Agli occhi suoi valiamo quindi tanto e non vuole che nessuno perisca.
    Vogliamo quindi essere grandi? Diventiamo piccoli come bambini.
    Vogliamo riconoscere chi è grande? Cerchiamo chi sa farsi umile e insignificante come un bambino.
    Vogliamo una chiesa grande? Predisponiamoci ad accettare tutti, come bambini.
    Vogliamo essere grandi? Rinunciamo ad ogni tipo di grandezza che non sia quella che ci fa tali agli occhi di Dio.