Una chiesa che è in Dio – 2 Tessalonicesi 1, 1-12

  Per leggere 2 Tessalonicesi clicca qui.

È sempre interessante soffermarsi sulle introduzioni delle lettere di Paolo, con i saluti i destinatari e gli auguri: presuppongono una serie di presupposti che l’autore ha su Dio e sulla relazione che chi scrive ha con chi riceve. Nelle due epistole che Paolo scrive alla chiesa di Tessalonica, capitale al tempo della regione greca della Macedonia, egli trova una formulazione singolare, che non riprenderà nelle epistole successive, essendo queste due epistole probabilmente le prime che egli ha scritto: «la chiesa che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo». Questa semplice frase ci dice molto sul buon fondamento di ogni chiesa. Dio non è nella chiesa, al contrario: la chiesa è in Dio! Paolo può scrivere a dei fratelli e augurare loro grazia e pace perché sa di muoversi in un territorio comune, in uno spazio condiviso: sia lui che scrive che i suoi destinatari oltre ad essere dislocati in qualche parte del mondo, (Corinto per Paolo, Tessalonica per i destinatari), abitano in un mondo ancora più importante che definisce che sono: Dio. Sono in Dio, ed è una bella formulazione per identificarci e appropriarsi oggi di questa epistola. La sentiremo anche nostra, ne mangeremo i contenuti se siamo fermamente convinti di essere in Dio come questa chiesa. Riceveremo quella grazia e quella pace che già sono in Dio e che chi è in Dio scambia con gli altri. Credo che Paolo senta bene si essere uno come noi siamo uno, auspicio di Gesù per i credenti di ogni tempo. (Giovanni 17)

1. Fede, Amore, Costanza. Il termometro di una chiesa sana

A Paolo piace molto, nelle diverse lettere, parlare di tre caratteristiche dei credenti: fede, speranza e amore. Nella prima epistola ai Tessalonicesi Paolo aveva usato le bellissime espressioni di «opere della fede, fatiche dell’amore, costanza della speranza». Qui riprende le prime due, e parla di costanza omettendo la speranza, dando un’accentuazione leggermente diversa. Paolo ringrazia perché la fede cresce, l’amore abbonda, e la costanza consente di superare prove e afflizioni. Durante il tempo intercorso tra le due epistole le tre caratteristiche evidenziate non solo non sono venute meno, ma sono addirittura migliorate. La fede è cresciuta, si è affinata, possiamo immaginare che si siano moltiplicate le situazioni in cui i credenti hanno letto la realtà in cui si trovano come controllata da Dio e permeata dalla sua presenza, o in cui si sono pienamente affidati a lui nel ringraziamento come nella richiesta rispetto alle difficoltà della vita. L’amore per gli altri abbonda sempre di più. Gesù nel suo discorso profetico aveva preannunciato che prima o poi l’amore dei più si sarebbe raffreddato (Mt 24, 12), mentre tra i tessalonicesi è aumentato. Si sono moltiplicati gli esempi di solidarietà tra membri di quella chiesa, le circostanze in cui qualcuno ha aiutato qualcun altro con soldi, insegnamenti, aiuto concreto, momenti di comunione. Abbiamo modo di pensare che sono diminuite le liti, i conflitti, le divisioni che tanto spesso caratterizzano i gruppi umani e le chiese stesse, o che comunque davanti a questi l’amore è cresciuto dando capacità di perdonare. La costanza nel resistere alla persecuzioni è parimenti rimasta tale: costante! Sfidati dalle autorità locali o dalla sinagoga di Salonicco che tanto aveva avversato la predicazione di Paolo, non hanno reagito abbandonando la fede o con violenza, ma non hanno smesso di restare aggrappati al Signore. Attenzione: Paolo non dice che l’esercizio di queste virtù è un merito che garantirà ai Tessalonicesi la salvezza. Esattamente al contrario dice che queste caratteristiche non sono altro che la prova del giusto giudizio di Dio. Sono i segni, le conseguenze di ciò che Dio ha operato nei cuori, sono il risultato e che faranno riconoscere i credenti come degni i Dio.

Paolo scrive ai Tessalonicesi intorno agli anni 50 del primo secolo d.C. Non penso che queste tre caratteristiche siamo cambiate negli anni, ed oggi affacciandoci su questo antico documento come* chiesa siamo sfidato alla stessa maniera in cui lo erano i credenti del primo secolo. Oggi è il primo culto. Ci poniamo insieme la domanda: Signore, la mia fede è cresciuta o preferisco adagiarmi sulle mie abitudini, le mie tradizioni ed i miei confort? Il mio amore per i tutti è cresciuto o preferisco starmene per conto mio, per evitare di amare ed essere amato, portando avanti i conflitti che non voglio risolvere e coltivando antipatia e distanza? La mia costanza rispetto alla persecuzione ideologica che un mondo che in tutte le sue manifestazioni non vuole mettere Dio al centro è solida o no? Queste virtù molto semplicemente sono il termometro della sanità di una chiesa che sa che va bene quando vede che quelle caratteristiche vengono praticate.

2. La giusta retribuzione.

Se da un lato Paolo vanta la costanza dei Tessalonicesi nel resistere alle persecuzioni non risparmia parole su una giustizia futura che riguarda chi perseguita. L’orizzonte del ritorno di Gesù è tenuto vivo e questo evento dato come certo si presenta con un duplice effetto: è un riposo per chi ha creduto ma è punizione per chi ha perseguitato e non ha creduto.

Su questo aspetto Paolo dà una spiegazione molto chiara sul senso dell’esistenza, delle azioni svolte dall’umanità, sul significato dell’agire degli uomini in ogni tempo. Il fatto che Gesù abbia raccomandato di porgere l’altra guancia non significa che schiaffeggiare sia giusto e che chi continua a dare schiaffi sulle guance che gli vengono offerte non debba un giorno essere punito. Che Dio oltre ad amare punisca, faccia vendetta, metta in eterna rovina alcune categorie di persone è più che giusto ed è intrinseco al carattere di Dio, fatto di amore infinito ed infinita giustizia. Se Dio facesse finta di niente davanti agli orrori commessi dall’umanità sarebbe un dio ingiusto. Ma se non desse a tutti questi uomini una possibilità di ravvedimento sarebbe un Dio privo di amore. E siccome ama dà delle possibilità, in modo che oltre alla vendetta ci sia la possibilità di “riposo”. C’è però un tempo. Una grossa clessidra della storia, periodo nell’ambito del quale ogni uomo può fare le sue scelte.

Questa visione della realtà dà senso e spessore la nostro mondo. Perché senza la speranza di un giusta retribuzione finale, operata da Dio e non dall’uomo, non c’è senso, ma solo assurdità. Un mondo in cui qualunque azione venga fatta vada bene e non abbia una retribuzione nel bene e nel male è un mondo assurdo, in cui non ci sono regole morali ed in cui uccidere o baciare è uguale. L’idea di impunità degli assassini ossessiona il comune sentire e basta guardare le giuste rivendicazioni dei parenti delle vittime di diverse stragi che cercano giustizia. Vogliono giustamente vedere i criminali puniti e la verità venire a galla. Non per sete di vendetta, ma per desiderio di giustizia.

La stessa sete di giustizia che ha Dio e che coniuga con un amore infinito capace di perdonare chiunque apra il proprio cuore all’amore della verità, indipendentemente da ciò che possa aver fatto di sbagliato. La clessidra del tempo non è ancora giunta alla fine, c’è ancora tempo per sfuggire a questo giusto giudizio. È importante che come chiesa non cediamo minimamente all’idea di un Dio solo bonaccione che non punisce nessuno e che tratta Hitler e Bonhoffer allo stesso modo. È importante che nel nostro mondo contemporaneo che fa di tutto per rimuovere l’idea di un futuro con cui faremo i conti, l’idea di un giudizio finale, dei credenti ricordino che ci sarà un giusto giudizio di Dio che discriminerà tra chi conosce Dio, non ubbidisce al vangelo e chi invece ha trovato riposo tra le braccia di Gesù. Non si tratta di spaventare l’umanità con lo spauracchio dell’inferno, ma di responsabilizzare ogni uomo rispetto alla grandezza della vita e alla dimensione eterna dell’esistere, che senza un giudizio finale da cui parte l’eternità si trova confinata ad un mondo chiuso e fine a se stesso.

Come chiesa ci chiediamo: una volta esercitata la fede, l’amore, la costanza, abbiamo il coraggio e la chiarezza di annunciare il giudizio?

3. Preghiera per una reciproca glorificazione

Se da una parte Paolo ricorda ai credenti quale sarà la sorte amara di chi ha rifiutato di credere nel vangelo di Gesù, dall’altra propone la contropartita: per chi ha creduto ci sarà una glorificazione, che sarà una glorificazione di Gesù. Le parole dell’apostolo sono insistenti:

v, 10. quando verrà per essere in quel giorno glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti quelli che hanno creduto, perché la nostra testimonianza in mezzo a voi è stata creduta.

v. 12 in modo che il nome del nostro Signore Gesù sia glorificato in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e Signore Gesù Cristo.

Il giorno del ritorno del Signore sarà un giorno sfolgorante, luminoso. Non solo nel senso che ci sarà il sole e non la pioggia, ma nel senso che le verità verranno a galla. I santi del Signore, quelli veri, non sono glorificati nel mondo, cioè non hanno molta importanza, molto peso, molta considerazione. Chi fa dei santi degli oggetti da venerare o ammirare, facendone immagini, statuine e quant’altro, oltre a praticare dell’idolatria, va contro il messaggio biblico che aspetta il giorno della fine del mondo per sottolineare la gloria che si vedrà nei santi. Se nel mondo i santi sono quelli che hanno detto cose stupide per la morale comune, se sono stati perseguitati, se hanno pagato con la vita il prezzo della loro testimonianza, il giorno finale si rovesceranno le sorti ed i riflettori del mondo punteranno su di loro, per far vedere che non hanno avuto torto nel credere in Gesù. I santi e i credenti, qui usati come sinonimi, verranno riconosciuti come vittoriosi. Ma questa vittoria dei santi non sarà percepita come una vittoria di uomini: saranno vincitori e glorificati in Cristo. Si capirà che se hanno qualche merito è solo e soltanto grazie a Cristo. Sarà palese che Cristo è la causa di ogni cosa buona, di ogni opera, di ogni verità. Al contempo questa prospettiva è già in atto adesso in chi crede. Perché quando Paolo riprende l’idea di glorificazione (v.12) come oggetto della sua preghiera dice che prega che Cristo sia glorificato nei tessalonicesi. La loro vita deve essere un riflesso che porta chiunque li vede a guardare Cristo.

Quanto detto finora quindi ha un fine ben preciso: glorificare Cristo, ed è la terza sfida che questo primo capitolo ci rivolge. Credo che ognuno di noi senta profondamente le sfide che Paolo ci lancia: crescere nella fede, abbondare nell’amore, essere costanti. Annunciare il giudizio di Dio. Con qualche fine, con quale prospettiva finale? La tentazione di apparire qualcosa, di voler essere qualcuno, di sentirsi importanti agli occhi del mondo è forte. Del resto «dare gloria» significa in ebraico dare peso, importanza. Qui la prospettiva invece è che Cristo sia glorificato. Se dalle mie belle azioni viene fuori che si dice un gran bene di me, della mia chiesa, dei cristiani, di quello che fanno e dicono, ma gli sguardi non volano al cielo e rimangono ancorati all’umano, alle persone siamo sulla strada sbagliata. Che ogni nostra azione glorifichi lui e non noi, come il Salmo 115 ricorda: «Non a noi Signore, ma a te la gloria!»