Isaia 6

Isaia 6

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Avere delle visioni, o essere visionari, non è un qualcosa che rassicura. Io diffido di chi dice di avere visioni perché temo che sia piuttosto uno che ha delle allucinazioni e sia ai limiti della psicopatologia. Eppure il passo che leggiamo oggi ci racconta di una visione. Non direi però che i profeti fossero dei visionari che passavano il tempo rapiti in estasi mistiche a contemplare delle visioni. Direi però che Dio si serve occasionalmente di visioni molto chiare, determinanti per la vita di un profeta, come la seguente. Simili le visioni le troviamo occasionalmente in momenti determinati di diversi personaggi biblici: si pensi alla scala di Giacobbe, al rovo ardente di Mosè, al fiume di Ezechiele, alla carne al macello di Pietro, fino al Figlio d’uomo dell’Apocalisse. Sono momenti incisivi, determinanti per la missione che il profeta ha da volgere. Le leggiamo non perché siamo a caccia di visioni, ma perché ci rivelano verità importanti sull’identità di Dio e sul suo modo di relazionarsi con l’uomo. Ci confermano ancora una volta che il Dio della Bibbia non è un Dio che si nasconde, ma un Dio che, benché invisibile si rivela, e lascia trasparire la sua gloria sulla terra.

Molti si sono chiesti perché questa visione non avvenga all’inizio del libro di Isaia, ma solo al capitolo 6 e le ipotesi si sono moltiplicate. C’è chi crede che la circostanza della morte del re Uzia, con la conseguente consacrazione del re Iotam, fosse l’occasione propizia; chi crede i primi anni della vita di Isaia furono caratterizzati da un ministero sterile, diventato fertile dopo questa visione. Io preferisco credere che si può essere profeti anche prima di una visione così forte, ma che proprio a sostegno del ministero profetico una simile visione dà ad Isaia una forza supplementare ed essenziale per trasmettere il messaggio di Dio.

1. La visione (1-4). Santo, santo, santo.

Ciò che colpisce di questa visione è che sembra che in realtà si veda tutto, meno che Dio… O meglio: Isaia dice di averlo visto, ma a noi ci dice ben poco di ciò che ha visto: Dio è seduto, possiamo quindi immaginare una forma umana, c’è un trono ed una veste che riempie un tempio. Poi degli angeli che lo coprono in parte. Quello che però emerge da questa visione in modo chiaro e che ci fa capire qualcosa è il grido dei serafini: «Santo, santo, santo è il signore degli eserciti. Tutta la terra è ripiena della sua gloria». Cosa significa? L’idea è quella di una «distinzione» di una differenza sostanziale tra Dio e ciò che non è Dio. Ma in cosa consiste questa? È una distinzione di ordine etico. Quando nel Levitico è detto: «Siate santi, poiché io sono santo», la santità è concepita come un rispetto scelto, responsabile e quindi morale di una serie di comandamenti. La fonte di questa santità è in Dio che è diverso in quanto moralmente ineccepibile e fonte della morale.

I capitoli precedenti ci hanno parlato della corruzione che dilagava nel popolo, delle mani sporche di sangue e dell’ingiustizia praticata. Ciò che Isaia afferma di Dio non è una santità astratta, teorica, oggetto vuoto di contemplazione: è una santità sostanziale che significa bellezza morale, eccellenza morale da contemplare per vivere giustamente e moralmente. La terra è piena della gloria perché laddove il nome del Signore è glorificato questa legge trionfa.

Applicazione. La proclamazione dei Serafini ci mostra una scena che potrebbe essere il modello dei nostri culti. In effetti abbiamo diversi canti che dicono: «Santo, santo, santo»…. Ricordiamoci che proclamare questa santità non significa fare esercizi spirituali ma aderire radicalmente e profondamente a quella morale a cui Dio ci chiama. Lodare Dio significa confessare la sua alterità morale, e il nostro desiderio di volerla fare nostra. Una vera lode fa tremare le porte, e riempie di fumo, nel senso che quando la lode è autentica, questo si vede, si percepisce. Ha delle ripercussioni sui luoghi in cui viene celebrata. Fa tremare perché va al di là del tempio, fuoriesce dai suoi limiti. Così sia della nostra lode.

2. Missione. 5-8

La reazione di Isaia davanti a questa visione che proclama la totale diversità morale di Dio – cioè la sua santità – è quella di sentirsi completamente inadeguato. Chi non si sentirebbe tale? Per quanto abbia già annunciato la parola di Dio, sente di essere un uomo dalle labbra impure, in mezzo ad un popolo impuro. Si può mentire a se stessi e agli altri, fingendosi persona per bene senza esserlo, ma davanti alla visione del re degli Eserciti, schiacciato dal peso della sua gloria, non si può mentire. Isaia non può partire per la sua missione senza prima aver confessato che quel male che pratica il suo popolo lo pratica anche lui. La sua purificazione non viene da lui, ma può venire solo da Dio. Uno degli angeli prende del fuoco, proveniente da un luogo in cui si espiano i peccati, l’altare e con questo purifica la bocca di Isaia. Non so se avete mai sentito raccontare che alcuni genitori lavano la bocca con il sapone ai bambini che dicono le parolacce. L’idea è simile, anche se il fuoco è più forte!

Si potrebbe mettere l’accento sullo slancio di Isaia e sulla sua disponibilità. Preferisco metterlo sul carbone che purifica, azione di Dio. Isaia non può non essere disponibile perché l’azione purificatrice è liberatoria e una vera liberazione gli impone di essere pronto. C’è un profondo legame tra quello che Isaia vive nell’essere purificato e quello che annuncerà e questo parla anche a noi.

Applicazione. Nelle nostre chiese ci sono moltissime persone che sanno di essere inadeguate e che sentono che Dio le ha purificate. Ovviamente non dal fuoco, ma dal sacrificio di Gesù, preannunciato nell’altare di cui parla questo testo, ma comunque molti sarebbero pronti a dire che sono passati da una condizione di impurità ad una di purificazione da parte di Dio. Tuttavia poche di queste persone sono pronte a dire: Eccomi, manda me… Possiamo trovare molte validissime scuse, dicendo che di Isaia ce n’è uno solo, che solo lui ha una missione così importante. È la stessa giustificazione che troviamo davanti ad ogni incombenza che la vita ci presenta. Altri possono farlo. Nelle chiese quando ci vogliono persone disponibili si arranca. Ma ognuno può raccontare di quello che Dio ha fatto nella sua vita. Perché se di Isaia ce n’è uno solo, Gesù ha riproposto il suo mandato a tutti i discepoli.

3. Il contenuto della profezia

Il contenuto della profezia da annunciare al popolo spaventa. Sembra che Dio chieda non tanto la conversione del popolo, ma la sua condanna e la sua distruzione. Sarebbe preferibile che con lo stesso carbone ardente con cui ha purifica la bocca di Isaia il Signore avesse scelto di purificare anche il popolo. Dio scegli invece di fare altrimenti… Abbiamo da poco letto che il profeta Giona si lamenta del contrario! Vorrebbe vedere distruzione e punizione su Ninive ed invece vede misericordia. Qui invece, se non alla fine, non si intravede nessuna misericordia, ma solo condanna. A ben guardare la durezza di queste parole non riguarda tanto i destinatari, ma la profezia di Isaia. Isaia potrebbe essere indotto ad indorare la pillola, ad usare un linguaggio dolce e conciliante che non dice al popolo la verità, cioè che sono sviati e lontani da Dio. Potrebbe essere politcally correct e annunciare un messaggio di sola guarigione. Invece Dio vuole che annunci con crudezza la verità e sa che questa crudezza produrrà devastazione, desolazione e punizione. Perché la verità è più importante della stessa guarigione e se la generazione coeva di Isaia perirà, la successiva riceverà un messaggio ancora più solido su cui costruire per Dio.

Applicazione. Ho letto che molte prediche su questo capitolo si fermano al v. 8, e incoraggiando ad andare. Ma se si parte senza avere il coraggio di dire la verità non si andrà molto lontano. Dire la verità non significa essere aggressivi o giudicare le persone che ci sono intorno. Dire la verità significa presentare il vangelo senza addolcimenti, spiegando chiaramente quale sia la condizione dell’uomo davanti a Dio: un morto spirituale che ha bisogno di Dio per avere vita, e salvezza, e che da solo non può ambire assolutamente a niente.

Conclusione

La finale è una nota di speranza. Per quanto si possa distruggere, resta un ceppo. Una radice che benché potata anche in modo pesantemente invasivo per essere pulita dai parassiti, ributta un tronco nuovo e si riprende. Tali siamo noi, le chiese di cui facciamo parte, la nostra stessa vita, che può attraversare momenti di terremoto, di devastazione, di potatura, un po’ come quella vite con i tralci di cui parla Giovanni 15. Ma se nel nostro cuore è stata piantata la radice santa di Dio, quella discendenza che è SANTA come Dio è SANTO, allora la devastazione lascerà spazio ad un ceppo che sarà la base per ripartire. Contempliamo allora il Dio che ha visto Isaia, che nella sua santità ci chiama ad essere santi e a devastare ciò che dentro di noi non va verso quella santità. Devastiamolo per poter cantare coni Serafini: Santo, Santo, Santo.