E’ giusto “martellare” Dio di preghiere?

Il giudice iniquo. Un modello di preghiera? Luca 18, 1-8

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Cosa significa pregare? È importante farlo o è una pratica autosuggestiva che non porta a niente?

La parabola che Gesù racconta ai discepoli si colloca in un contesto ben preciso: quello in cui Gesù sta dando istruzioni su cosa sia il Regno di Dio, e su come vada aspettato. Nel capitolo precedente abbiamo visto che il regno di Dio ha due caratteristiche principali: è una presenza già adesso, che non tutti vedono ma che chi ha fede riesce a vedere nella sua grandezza. E’ qualcosa in promessa di futuro che deve ancora venire.

Queste stesse dimensioni le ritroviamo in questa parabola che come viene esplicitamente detto dal narratore viene detta da Gesù ai suoi discepoli perché pregassero continuamente e non si stancassero di pregare. Abbiamo dunque un tema molto importante in questo passo: che ruolo ha la preghiera nel Regno di Dio?

  1. La preghiera non è un martellamento, ma un atto di fede.

Un primo punto da chiarire è il seguente: in diversi passi Gesù incoraggia i discepoli a pregare, a non stancarsi, a bussare perché venga loro aperto, a chiedere aspettandosi di ricevere (Mt 7,7; II Cor 12,8); in altri, invece, sembra dissuadere i discepoli da preghiere insistenti e petulanti che diano l’impressione di venire realizzate per insistenza (Mt 6). I personaggi di questa parabola potrebbero facilmente essere considerati come degli esempi di preghiera, benché negativi, il cui atteggiamento sarebbe giusto e corretto se avessero degli scopi diversi. In realtà credo sia un grosso errore prendere questi personaggi come esempi. Gesù usa quello che in retorica viene chiamato argomento a fortiori: il giudice non è paragonabile a Dio e la vedova non deve essere un modello per il credente, benché persegua una causa giusta. Non è infatti martellando Dio giorno e notte, ed insistendo presso di lui che le preghiere verranno esaudite. Questo modo di vedere la preghiera è in parte magico, in parte materialistico e porta a considerare la preghiera come una specie di strumento efficace in sé, o come moneta di scambio tra noi e Dio: si viene esauditi in base ala durata, all’intensità, alla frequenza delle nostre preghiere. La settimana scorsa ho ricevuto un messaggio su whatsapp che invitava a recitare dei paternostri a raffica, invitando rispedire il messaggio per produrre una gran quantità di paternostri.

È anche sbagliato vedere Dio come un Dio assorto nelle preoccupazioni che viene condizionato soltanto dalle richieste di chi grida di più, quasi che seguisse un proverbio della nostra città che dice: come si dice a Lucca, “chi un si lagna ‘un puppa!”, che ritrae perfettamente quello che succede ad esempio in molti dei nostri uffici, dove viene ascoltato solo chi urla di più e fa macello, o nelle aule scolastiche dove gli alunni più rumorosi assorbono la totalità dell’attenzione dei docenti. No, Dio non è così e tutta la parabola non fa che dirci che è proprio perché Dio è radicalmente diverso da quel giudice che noi dobbiamo essere radicalmente diversi da quella donna: non petulanti ed insistenti pensando di essere per questo esauditi da un Dio distratto, ma fiduciosi e pienamente convinti che Dio ascolta e non si distrae. Chi ha messo la sua vita nelle mani del Dio che è padre di Gesù non ha bisogno di trovare metodi per torturare Dio: piuttosto deve meditare giorno e notte sulla sua bontà e sul significato di essere nel suo regno. Confidare in quella presenza ed in quella promessa che si realizzano e che continuano a realizzarsi.

 

  1. La preghiera non è un rompere la testa, ma un grido.

Chiarito però che i credenti non sono chiamati a “rompere la testa di Dio”, un elemento di comunanza tra questa vedova e quello che dovrebbero fare “gli eletti” c’è: la vedova non si stanca perché sa bene che solo così potrà vincere l’indifferenza del giudice: la perseveranza della vedova è lo strumento che le permetterà di farsi ascoltare. Gli eletti ugualmente sono chiamati a gridare giorno e notte perseverando in questo grido. La loro perseveranza tuttavia non è affatto un strumento per ottenere il favore di Dio, ma il risultato della fiducia che hanno in Dio. E proprio perché sappiamo che Dio è infintamente attento al nostro grido che non smetteremo di credere e confidare in Lui.

Purtroppo riscontriamo che la voglia di gridare da parte nostra si affievolisce se non otteniamo risultati rapidi e questo è il grosso problema che condiziona la nostra fede. Non vediamo segni del Regno – come i farisei del capitolo precedente – e quindi lentamente ci accechiamo. Oggi ascoltavo un commento alla radio che ha colpito: il giornalista diceva che in questi giorni il terrore smette di terrorizzarci perché le azioni terroristiche sono talmente frequenti che diventano normali. Lo stesso capita con la fede se non viviamo nella costante dimensione della presenza e promessa del Regno. Se ogni giorno non prendiamo del tempo per capire dove sia Dio nella nostra vita, cosa abbia fatto e faccia per noi sia dando la sua vita per noi 2000 anni fa, sia intervenendo concretamente oggi nel nostro quotidiano, sia nelle parole lette ogni giorno sulla Bibbia, nelle parole di amici, nel momento in cui preghiamo, negli atti di amore che riceviamo e diamo, e in ultima analisi nella percezione che nonostante il terrore, nonostante il male che avanza, la vittoria finale è in mano sua; se non prendiamo tempo per considerare tutto ciò, la nostra fede si affievolisce. Se lasciamo che la vita ci scivoli addosso anziché sapere con certezza che è guidata dal Signore del Regno anche quando non capiamo come, si affievolisce. Se una serie di interessi, piacere, sfizi e pruriti sopravanzano “il regno e la giustizia di Dio” la nostra fede muore. Ecco perché il commento finale della parabola si conclude con quel terribile interrogativo che prelude a quel fenomeno globale di intorpidimento della fede che la Bibbia chiama apostasia e che precederà il ritorno…

Sta a noi rispondere oggi, e voglio sperare proprio che nella nostra chiesa possiamo rispondere con forza: sì la troverà! La troverà perché abbiamo capito chi sei. Non perché siamo qualcosa o perché siamo capaci di qualcosa, ma perché abbiamo capito chi sei!

 

  1. La preghiera tra fretta e futuro.

Colgo una tensione nella penultima frase del passo: Dio renderà giustizia con prontezza. Il tempo usato è al futuro, e questo ci inserisce nella dimensione della promessa. Ma l’avverbio accorcia di molto questo futuro: prontamente! In greco la parola usata letteralmente è “con velocità”, ed è curioso osservare che è la parola da cui deriva il termine “tachimetro”, misuratore di velocità. A leggere il testo in greco con occhi moderni verrebbe in mente un tachimetro che misura a quale velocità Dio realizza le preghiere che suoi eletti gli rivolgono notte e giorno!

Proprio questa immagine ci può aiutare a capire parte del nostro problema e parte della sua soluzione. Un apparecchio come il tachimetro caratterizza bene la nostra epoca in cui il concetto di velocità ha preso una grande importanza; sto leggendo un romanzo dell’800 in cui un personaggio è impressionato perché viaggia su un treno che va a 80 all’ora! Quello stesso treno oggi farebbe 320 all’ora, e mi viene da pensare al tachimetro come una delle tante metafore capaci di rappresentare la modernità perché oggi fare presto le cose è importante. Nel mondo razionalizzato spostarsi velocemente significa avere più tempo per fare altre cose; paragonare due motori di auto acquisisce dimensioni simboliche importanti che rimandano a pretese di superiorità; ottenere velocemente quello di cui abbiamo bisogno è percepito come un valore aggiunto per la nostra vita. Vorremo che fosse così anche con la realizzazione del regno di Dio, che ci piacerebbe vedere realizzato velocemente, proprio per il condizionamento anche epocale in cui siamo immersi.

Di qui la risposta che ci rimanda all’inizio del testo: “disse questa parabola per mostrare che dovevano pregare sempre e non stancarsi” v.1

In questo continuo processo di presenza del regno e di sua attesa di completamento la preghiera svolge un ruolo centrale. È la preghiera che ci fa vedere la “velocità” con cui Dio interviene nel mondo di oggi salvando vite, permettendo crescite di chiese, traduzioni di Bibbie, guarigioni interiori ed esteriori, conversioni di cuori, quindi grossi cambiamenti! È nella preghiera che vediamo tutto quello che Dio ha già fatto e la certezza che farà ancora, e che la “non velocità”, il ritardo della parousia non è altro che un immenso atto di amore che permette ad altri di ravvedersi.

 

Sembra banale dirlo, ma una preghiera semplice e sincera levata dal cuore non con insistenza petulante, ma con convinzione riposante sulla persona che si invoca, è un atto di fede: il Figlio dell’uomo troverà la fede se troverà persone che pregano sinceramente! Io devo dire quando non conoscevo Dio una delle prime cose che mi hanno toccato è stato proprio il fatto che le persone che mi hanno parlato di Dio pregavano realmente. Non recitavano, pregavano. Questa preghiera sia la nostra e permetta al regno di crescere!

Le chiese che vogliono che Gesù trovi risposta affermativa alla domanda finale devono prendere sul serio la preghiera, vendendo in essa un appuntamento fisso della comunità e dei singoli, ed organizzandosi per praticarla in modo sempre più costante, fiducioso ed attuale.