Chi è il mio pubblico? Matteo 6: 1-6

1 Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. 2 Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3 Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4 perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
5 Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6 Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

16 E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
17 Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, 18 perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

Dopo aver parlato del carattere cristiano, dell’importanza della testimonianza, e dell’importanza di praticare la giustizia, Gesù porta l’attenzione dei suoi interlocutori su alcuni modi di esercitare la “giustizia”. Nelle nostre traduzioni abbiamo la parola “buone opere” che è una traduzione possibile, ma è importante sapere che in greco la parola usata è la stessa di: “se la vostra giustizia non super quella dei farisei”. La giustizia è il modo di agire in conformità alla legge di Dio e fare delle buone opere è un modo per esercitare la giustizia.

Ci troviamo davanti ad un passo che ripete tre volte quasi la stessa cosa, variando però il contenuto. Ci parla di tre importanti pratiche che la religione giudaica prevedeva e ci pone tre domande:

Qual è il fine di queste pratiche?

Chi è il pubblico che osserva queste pratiche?

Quale ricompensa si ottiene praticandole?

  1. Tre pratiche ambivalenti

Alcune cose sembrano essere valide di per sé. Fare elemosina, dare cibo, vestiti, soldi agli indigenti costituisce la spina dorsale dell’altruismo. Facilmente diventa una pratica che una volta compiuta ci fa sentire a posto con noi stessi e davanti a Dio.

Pregare è l’atto per eccellenza che esprime la religiosità. Nella nostra epoca secolarizzata sembra un’attività strana, e riservata agli spazi sacri e quando invitiamo qualcuno ad una riunione di preghiera fa un po’ strano. Ma nessun dubbio che uno che prega è considerato come qualcuno animato da una profonda spiritualità.

Digiunare infine è ancora più strano. Vada che lo si faccia per dimagrire, o per scopi terapeutici. Ma se lo si fa per coltivare il proprio rapporto con Dio, o per finalità spirituali, pensiamo ad asceti, o a monaci, o ancora alle pratiche di tempi passati in quaresima.

Erano comunque per i farisei le buone pratiche, le realizzazioni concrete della giustizia. E probabilmente sono pratiche che anche oggi ci riproponiamo di fare, prendendoci degli impegni con noi stessi o nei confronti di Dio e di altri.

Gesù problematizza questa pratica ricordandoci che non esiste niente di scontato e che nessuna pratica ha una validità in sé. Queste pratiche come ogni atto umano sono soggette ad errore ed il fine per cui le pratichiamo ci permette di capire se sono giustizia o ipocrisia.

Ci invita dunque ad un esercizio che potremmo estendere a tutto quello che facciamo nella nostra vita di fede e che suona alle nostre orecchie come opera buona. Per quale scopo lo faccio?

  1. Chi è il pubblico.

Nelle descrizioni delle tre pratiche c’è un abbondante uso del linguaggio teatrale. In greco il termine “hypocritais” designa prima gli attori e solo in un secondo momento assume la connotazione di uno che recita una parte che non è conforme alla sua natura. Gesù pone la domanda su chi sia il reale pubblico che osserva le nostre azioni. I farisei scelgono di usare le piazze come palcoscenico e di mostrare le loro elemosina, suonando la tromba, con la scusa magari che serve a richiamare i poveri. Per pregare stanno in piedi, affinché il mondo sappia bene che c’è chi prega, e se digiunano attirano gli sguardi perché stanno male. Gesù fa notare che se il pubblico che ricerchiamo sono gli altri, la bontà della pratica che facciamo è inficiata e compromessa, diventando vanagloria.

È anche possibile che il pubblico che abbiamo scelto siamo noi stessi. Ecco perché Gesù consiglia che la destra non sappia cosa fa la sinistra, quasi che sia possibile nascondere a noi stessi il dono che stiamo facendo. È già difficile nascondere agli altri e non far sottilmente trasparire quanto siamo bravi a pregare, a donare e a digiunare, ma nasconderlo a noi stessi è impossibile. Gesù consiglia delle pratiche che ci facciano dimenticare anche di noi, se fosse possibile. Perché è molto facile confortare la nostra insicurezza con l’appagamento di aver fatto qualcosa di buono. Stanze segrete e volti smaglianti ci aiutano a dimenticare anche di noi, cercando un solo pubblico.

Il pubblico davanti a cui agire è solo e soltanto Dio. Può sembrare irriverente chiamare Dio un pubblico, ma dobbiamo riflettere sul fatto che ogni attore agisce diversamente in base al pubblico che ha davanti. Se il pubblico è Dio, sappiamo di non poter mentire, di non poter fingere e di non poter nascondere i nostri veri scopi.

  1. La ricompensa

L’idea di una ricompensa lascia stupiti sia chi crede sia chi non crede. Chi crede avverte un contrasto con l’idea di grazia, giacché sappiamo che Dio non dà premi o ricompense ma salva gratuitamente. Chi non crede può rimanere scandalizzato dall’idea che si potrebbe agire secondo la morale del do ut des, cioè del dare al fine di ricevere… Bisogna qui capire cosa significa ricompensa. La vera ricompensa non è tanto un premio sconnesso dagli scopi che si perseguono ma un loro prolungamento. Ad esempio: una vera ricompensa per uno studente, non è tanto una coppa, o una medaglia, quanto una borsa di studio che prolunga il percorso fatto. Se lo scopo è buono allora il padre saprà dare come ricompensa ciò che rende le pratiche di giustizia citate veramente autentiche e proficue.

Qual è la ricompensa dell’elemosina? È vedere che chi ne è oggetto migliora realmente le sue condizioni di vita! Chi dà veramente non si preoccupa che il pubblico sappia che lui ha dato, ma che chi ha ricevuto abbia realmente ricevuto e si sia giovato del dono.

Qual è la ricompensa della preghiera? È un rapporto più intendo con Dio. Pare che il termine “stanza segreta” in greco designi una stanza in cui si conservavano tesori. La ricompensa della preghiera è quindi trovare il tesoro della relazione profonda con Dio, arricchente, trasformante. È che la preghiera sia realmente un dialogo e non un monologo, che Dio esaudisca e risponda.

Qual è la ricompensa del digiuno? Può essere un miglioramento della capacità di concentrarsi sulle cose di Dio, una sincera solidarietà con chi non ha da mangiare.

Conclusione

Poco sopra Gesù ha incoraggiato ad essere sale e luce non nascondendo le buone opere. Abbiamo detto che la nostra luce sarà autentica se è una luce che riflette Dio, e che il sale non trasforma ma condisce dando sapore, azione nascosta ma efficace. Gesù con queste tre domande sfida le nostre azioni ad essere sì visibili, ma paradossalmente nel segreto e con l’esclusivo pubblico di Dio, davanti a cui solo rendiamo conto.