Atti 17 – Parlare di resurrezione a Natale

Atti 17 – Parlare di resurrezione

Tre città spiccano in questo capitolo: Tessalonica, Berea e Atene. Ognuna riserca a Paolo e i suoi amici un accoglienza diversa, ma tute sono accomunate da un unico messaggio: come declina Paolo il suo messaggio secondo chi ha davanti? Come viene accolto? Credo che questo sia uno degli aspetti più interessanti del capitolo che ci sprona anche oggi a sapere scegliere le parole giuste nei luoghi giusti e a lasciarci plasmare dall’ascolto della Scrittura.

1. Tessalonica: Il Cristo doveva morire e risuscitare.

Conosciamo ormai il metodo di Paolo: partire dagli ebrei per raggiungere i greci. Luca insiste sempre nel dire che Paolo nelle diverse sinagoghe annuncia un messaggio fondato sulle Scritture, punto comune tra cristiani ed ebrei, che consta di due elementi fondamentali:

  1. Il Cristo (cioè il messia) doveva morire e risuscitare
  2. 2) Il Cristo è Gesù.

Sarebbe però interessante capire cosa diceva esattamente Paolo. Quali profeti citava e commentava. La risposta non è infatti immediata perché non abbiamo nessun profeta che dica esplicitamente e chiaramente che il messia sarebbe risorto. E ancora peggio se aggiungiamo la precisazione del terzo giorno, come fa Paolo in altri punti (I Cor 15:3-5). Dobbiamo quindi immaginare che Paolo parlasse con i membri della sinagoga di passi come questi:

Che il messia dovesse soffrire e morire era abbastanza chiaro. Certamente alcuni movimenti messianici avevano preferito insistere sulla regalità di Gesù, ma alcuni tra i tanti passi sono chiari:

  • Salmo 16, 10.  poiché tu non abbandonerai l’anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione.
  • Salmo 22: “Perché mi hai abbandonato? …. Ma io sono un verme e non un uomo,
    l’infamia degli uomini, e il disprezzato dal popolo.
  • Isaia 53: 5 Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre iniquità; il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui e mediante le sue lividure noi siamo stati guariti.

Ma che dire della resurrezione?

Esistono dei passi nell’Antico Testamento che fanno riferimento in modo diretto o simbolico alla resurrezione, e probabilmente anche di questi Paolo dovette servirsi. Dalla lettura dell’epistola agli ebrei noi scopriamo che il sacrificio di Isacco viene interpretato dall’ebraismo del tempo di Gesù come una specie di resurrezione:

  • Ebrei 11, 18-1918 Eppure Dio gli aveva detto: «È in Isacco che ti sarà data una discendenza». 19 Abraamo era persuaso che Dio è potente da risuscitare anche i morti; e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione
  • Osea 6,2. Diranno: «Venite, torniamo al SIGNORE, perché egli ha strappato, ma ci guarirà; ha percosso, ma ci fascerà. 2 In due giorni ci ridarà la vita; il terzo giorno ci rimetterà in piedi, e noi vivremo alla sua presenza.
  • Ezechiele 37, che interpreta il ritorno dall’esilio babilonese come una resurrezione di uno scheletro che pian piano riprende muscoli, carne e vita.
  • Il terzo giorno: a questo si aggiungono diversi passi biblici in cui il riferimento al terzo giorno comporta un qualche tipo di risurrezione: Scendere dal monte Sinai per ripartire, Giona che esce dal pesce, ed altri.

Ma nessuno di questi parla della resurrezione del messia! Parlano della resurrezione del popolo… Per capire queste profezia è necessario capire che il messia rappresenta il popolo stesso, che Gesù è presentato nei vangeli come il nuovo Israele, e che quindi mette insieme le profezie che abbiamo letto. Al di là di tutto quello che si può dire si tratta di una lettura che non è facile, né scontata e che richiede molta saggezza e l’illuminazione dello Spirito da parte di Paolo. Non si tratta di una lettura forzata, di un’interpretazione soggettiva, ma del giusto modo di leggere l’insieme dell’Antico Testamento. Ma richiede una grande capacità di interpretare una conoscenza illuminata dallo Spirito.

Applicazione. Come ho già rilevato rispetto ad altri discorsi di Paolo, colmi di citazioni dall’Antico Testamento e di riferimenti alla storia di Israele, mi colpisce il modo in cui la gran conoscenza di Paolo è messa a servizio del vangelo. Paolo conosce bene il suo uditorio ebraico e può parlare perché conosce bene quel linguaggio. Se vogliamo parlare del vangelo e lasciare una traccia in chi lo ascolta dobbiamo preoccuparci di curare il nostro studio e il nostro approfondimento della Scrittura in un modo analogo. Troppo spesso l’annuncio del vangelo si limita ad un racconto della propria esperienza di conversione; questa è importante, ma raramente Paolo parla della sua conversione, preferisce parlare di Cristo! Dobbiamo curarci inoltre di allenare la nostra mente a interagire in modo corretto con i contesti che abbiamo davanti, dialogando ed imparando a dialogare. Immagino che di sinagoga in sinagoga Paolo abbia imparato sempre meglio cosa dire e come dirlo. Che il Signore ci faccia crescere in questo.

2. Berea: come accogliere la parola.

La visita della città di Berea non ci informa molto su cosa diceva Paolo o su come lo diceva, perché probabilmente diceva le stesse cose che aveva detto nella altre sinagoghe. È un caso abbastanza isolato nel libro degli Atti, ma qui Paolo riceve un’accoglienza diversa. Si parla di persone che hanno sentimenti nobili e quindi ascoltano e verificano punto per punto le Scritture per vedere se le cose stanno veramente così. In altre parole, come lettori e ascoltatori cercano di percorrere a ritroso quei discorsi importanti fatti da Paolo per capire e verificare. Capiamo da loro che quel che conta non è il carisma di Paolo, che Paolo non è un manipolatore né un persuasore occulto, e che il suo messaggio è verificabile: è un metodo oserei dire “scientifico”, che non accetta un qualsiasi discorso perché chi lo fa sa parlare o è convincente, ma che si sforza di investigare la Scrittura. Applicazione. Credo che questo atteggiamento della chiesa di Berea sia una vero esempio per ognuno di noi nel momento in cui si ascolta chiunque parli da parte di Dio. È un’esortazione a non dare mai per scontato che chi parla dica cose esatte per la sua autorità: ogni pastore o predicatore deve essere sottoposto al vaglio della Scrittura. Ed è una bella ginnastica da parte di chi ascolta verificare, come i bereani, che ciò che viene detto sta proprio così. La buona predicazione non deriva solo da chi parla, ma anche da chi ascolta.

3. Atene.

L’inizio della visita della città di Atene promette male. Certo che Paolo fa bene ad inorridire davanti all’idolatria. Conoscere il Dio unico fa sì che davanti allo spettacolo della miseria umana che antropomorfizza una serie di paure, pulsioni o desideri umani, trasformandole in idoli di materia, lo spirito si sconvolga. Tuttavia se Paolo si fosse fermato allo stadio dell’inasprimento non sarebbe andato molto lontano. Con grande creatività trova qualcosa da dire. Si è scritto moltissimo su questo passo e mi limito a notare alcuni aspetti:

  1. Riesce ad evitare di cascare in un discorso esclusivamente filosofico e lo sposta sul piano religioso. L’agorà era luogo di dibattito filosofico e c’è un po’ di ironia da parte di Luca nel ritrarre gli ateniesi come un popolo in cerca di continua novità. Paolo non cade nella tentazione di essere quello che dice le cose più nuove rimanendo su un piano solo filosofico, ma parla di religione: quindi di cose che vanno al di là del semplice toccare, sentire ed esperire.
  2. Paolo coglie l’elemento positivo di quella religiosità e comincia con l’elogiare gli ateniesi perché sono “timorati degli dei”. Non parte dal disprezzo o dalla denuncia, ma da un punto comune, il fatto che sia giusto rispettare e temere la divinità. Ha colto però l’essenza di quell’altare al Dio ignoto, e forse ha intuito che questa incarna proprio il principio fondamentale di ogni religiosità: ogni sforzo religioso, inteso come prodotto umano per andare verso Dio, per cercare la divinità che ha lasciato una traccia nel cuore umano, è inutile: porta al massimo ad un dio sconosciuto. Ci vuole la rivelazione
  3. Insiste molto sull’incoerenza, condivisibile da tutti, di voler imprigionare il Dio creatore in costrutti umani: templi, statue, cose fatte dalla mano dell’uomo, e rovescia questo rapporto: siamo noi che ci muoviamo in lui e che siamo sua opera. Si tratta di un discorso molto pertinente nel momento in cui si vuole parlare di Dio in modo semplicissimo, ipotizzandolo come uno più grande di noi che crea.
  4. Posta questa base comune fatta di bisogno di Dio e di comprensione comune di cosa possa essere un Dio, introduce tre elementi molto forti: ravvedimento, giudizio da parete di Gesù e resurrezione di Gesù. Nuovamente siamo arrivati ai due punti di base di cui parlava nelle sinagoghe: Gesù è il messia morto e risuscitato!

Applicazione. Alcuni credono, altri no. Ma quello che dobbiamo imparare da questo passo è che in qualunque cultura, nonostante grosse differenze di riferimento, è possibile parlare di un Dio creatore di tutto, e sostenere che questo si sia incarnato in un uomo rifiutato e risorto, che giudicherà il modo e che chiama a conversione. Probabilmente anche nel XXI secolo molti sentendo parlare di resurrezione potrebbero mettersi a ridere. Ma per molti versi il XXI secolo è lo stesso mondo di 2000 anni fa, pieno di idoli che promettono felicità ed eternità, a volte con nomi diversi, a volte gli stessi: tecnologia, medicina, edonismo, assolutizzazione dell’uomo, denaro, sesso, ecc. Da questi stessi idoli l’uomo del XXI secolo si deve convertire, scoprendo che questi prodotti delle mani dell’uomo non danno vita, e che la vita può venire solo da quell’uomo, di nome Gesù che Dio ha mandato sulla terra per giudicare e salvare il mondo al contempo .